LA CATTURA
''Mi arrestano, mi rapiscono qui, a un chilometro dal centro di Laskhar Gah. Avevo deciso di andare a sud, a Kandahar e poi a Laskhar perche' qui domina il movimento taliban e qui si puo' toccare con mano la realta' che ci viene raccontata''.
Cosi' Daniele Mastrogiamo, il giornalista liberato ieri in Afghanistan, racconta in un reportage sul suo giornale, ''la Repubblica'' i 15 giorni di prigionia e il momento della sua cattura.
''Con l'autista usciamo da Laskhar, un chilometro e prendiamo a bordo un ragazzo. Ha il tradizionale telo che gli copre anche gli occhi. Lo saluto non risponde. Indica la strada. Facciamo un chilometro....poi ci fermiamo. Dalle colline appaiono tre moto nere. A bordo ci sono tre ragazzi vestiti come i taliban, turbante nero e vstito grigio scuro. Sono armati. Ci bloccano. Fanno scendere dall'auto i miei compagni, legano loro le mani dietro la schiena con i turbanti.
Aprono il mio sportello. Mi guardano...Mi fanno scendere...Mi puntano le canne del fucile addosso. Legano le mani anche a me. Riesco a liberarmi, mi tolgo la benda. Il calcio del kalashnikov mi colpisce la schiena. Cado a terra. In ginocchio, alzo le mani, mi arrendo. Mi arriva un secondo colpo di kalashnikov sulla testa. Il sangue esce a fiotti. Mi infilano nel portabagagli, poi nuova sosta, mi infilano un cappuccio nero e mi caricano sul sedile di una moto. Finisco con gli altri dentro una casa di fango e paglia.
Sono tutti li', parlano, ci dicono che siamo in arresto: ingresso illegale in territorio taliban, devono verificare chi siamo. Se scoprono che siamo spie ci uccidono, se invece siamo giornalisti come stiamo dicendo da subito, serviremo per uno scambio di prigionieri''.
Mastrogiacomo nel suo diario di prigionia descrive poi gli altri spostamenti ma soprattutto le torture le percosse che ha subito: ''Mi fanno stendere e poi iniziano a frustarmi con pezzi di tubi di gomma. Io urlo basta! si dice cosi' anche in pashtun..''.
E' STATA UNA TORTURA
Piu' che un sequestro ''e' stata una vera tortura''. ''Una tortura. Psicologica e fisica, mentale, religiosa, politica, esistenziale. Quindici giorni che mi hanno segnato come quindici anni''.
Il giornalista analizza cosi' il suo stato d'animo: ''Dentro e fuori, nel mio profondo, nel mio subconscio''. ''Mi hanno cambiato vestito. Tradizionale. Il mio, sempre tradizionale, che ho indossato per due settimane e' pieno di sangue. Lo hanno lavato ma non sono riusciti a cancellare le macchie nerastre che mi punteggiavano persino i pantaloni. I taleban non vogliono fare brutta figura. Vogliono che il mondo sappia che trattano bene i prigionieri.
Mi faccio una doccia, la prima in due settimane''. E prosegue: ''Mi riprendo ma sono ancora stordito. Temo altri intoppi, altre trappole. Chiedo conferma a un ragazzo che fa il giornalista dei taleban. Lui annuisce, mi dice che e' vero, che ci liberano, che e' sicuro al cento per cento.
Ajmal, mio collega sbanda. E' bianco in volto. Continua a tenere il muso.- racconta - Mi ha sempre detto di non credere piu' a niente. Impreca contro il governo Karzai, colpevole a suo dire di provocare continui ritardi nel rilascio''. E quindi, prosegue l'inviato sul suo giornale: ''Mi isolo lo abbandono. Non mi puo' essere di aiuto in questo momento, come invece lo e' stato molte altre volte''.
Mastrogiacomo racconta poi: ''Non so dove avverra' lo scambio. Penso al primo fronte della guerra. Io con le catene ai polsi che cammino su una terra di nessuno, con i cecchini piazzati, su entrambi i lati. Mi assale di nuovo l'angoscia. Dico che non e' finita, che rischi ancora la vita. Penso a Calipari e alla Sgrena.
COSI' CI HANNO LIBERATI
''Fra due ore, preparati''. Il comandante, come lo chiamano, anche oggi e' raggiante, perfino ironico. Entra nella stanza in terra e paglia dove dormiamo da domenica notte e annuncia: 'Sei libero, voli via', mi dice mimando un aereo che decolla. Sono stordito. Le notizie che ho imparato a percepire da qualche parola di pashtun farfugliata dalle guardie all'esterno, mi fanno capire che tutto sta per finire. Sono ad un passo dalla liberta'.
''I sei guardiani, irrompono nella stanza - prosegue il racconto -, sono felici, sorridono, stringono le mani, mi battono pacche sulle spalle. Chiedono scusa, si avventano sui lucchetti delle catene.
Le chiavi si sono perse nel deserto. Prima affrontano il catenaccio del collega e interprete afgano Ajmal, anche lui liberato e rientrato a casa. E' un lucchetto piu' grosso, ci vuole piu' forza e piu' costanza. Facciamo a turno, studiando come e dove rompere. Con tutto quello che troviamo. Io resto li', ad osservare. Ajmal ha il viso distrutto. Troppe volte siamo rimasti delusi, troppe volte in uno sconforto che non mi faceva piu' respirare, mi sfogavo con lui e gli dicevo che si doveva assumere gran parte della responsabilita'.
Lo esortavo a reagire, a non usare quella tecnica della vittima, del finto malato, quasi dell'offeso. Avevamo davanti un gruppo tosto, forte, deciso. Non c'era nulla da essere offesi, ci avevano venduti.
La sua fonte gli aveva promesso un'intervista ad un comandante di spicco dei Taleban. Non era cosi'. Forse il contatto, che ha pagato con la vita, ci ha venduto come spie al capo di una delle due fazioni in cui sono divisi i Taleban''. Si avvicina il momento della liberazione e Mastrogiacomo lo racconta cosi': ''Ajmal si e' ripreso, mi dice che le soluzioni sono due: un accordo con i garanti, i grandi capi tribu' del posto, che ci prendono in consegna; oppure la prima linea. Ma la vede complicata: Prego, prego per l'ennesima volta. Chiedo a quel Dio con cui ho sempre comunicato se riusciro' a sopravvivere.
Provoco il comandante: lo fermo e gli dico: 'Parliamo da uomo a uomo. Tu mi hai condannato nel deserto, prima di fare tagliare la testa a quel poveraccio, e adesso mi liberi. Mi credi una spia o un giornalista? Di cosa sei veramente convinto?'. Lui mi guarda fisso. Adesso non sorride piu'. 'Un giornalista', risponde. 'No problem - insiste - sei libero. Mi caricano su una macchina, una Toyota Corolla vecchia e anonima. Due ragazzi mi stringono sul sedile posteriore. Sono armati di kalashnikov.
Davanti siedono il comandante, che guida, e Malus, il religioso che ha gestito le ultime fasi della nostra prigionia. Ci segue un pick-up pieno di ragazzi armati, molti hanno gia' innestato il lanciarazzi anticarro''' Mastrogiacomo quindi racconta: Ci hanno divisi da Ajmal e come traduttore c'e' solo l'aspirante giornalista. Continua a filmare la mia liberazione, il corteo di camioncini e macchine.
Percorriamo una strada sterrata, lungo il canale del fiume Helmand che serve ad irrigare le piantagioni di papavero. Sono tutte in fiore. Sembra cicoria selvatica, la coltivano tutti. Helmand, mi dice Malaus mentre ci dirigiamo verso il punto di scambio, e' la provincia piu' ricca dell'Afghanistan. L'oppio serve a voi, ce lo chiedete voi, noi non lo usiamo, lo vendiamo''.
2007-03-20
01:54:10
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senso2005
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