era scontata la condanna a morte del mandante ed esecutore di tanti massacri emessa ieri dal tribunale speciale di Bagdad, espressione della giustizia irachena ma certo non affrancato rispetto alla superpotenza che ha abbattuto e custodisce quel tiranno. E che, soprattutto, argina l'insurrezione armata, della quale Saddam Hussein è il capo simbolico. Anche chi, per principio, è contrario alla pena capitale, ed è il nostro caso, avrebbe considerato singolare, o addirittura sorprendente, una sentenza meno drastica in un Paese in cui il sangue, spesso di innocenti, scorre quotidianamente più puntuale dell'acqua potabile, e dove in carcere si è più al sicuro che per le strade. I massacri di kurdi e di sciiti, a volte anche con armi chimiche, sono stampati nelle memorie e sono ancora all'origine di molte vendette. Il verdetto del tribunale speciale di Baghdad riguarda il massacro di sciiti nel villaggio di Dujail, dopo un fallito attentato alla vita del rais, vale a dire una delle tante repressioni, non la più grave. In molte altre occasioni le vittime sono state migliaia. La pena di morte inflitta a Saddam "per crimini contro l'umanità" in questo primo processo sembra voler ricordare al momento opportunoegli resta comunque un dittatore sanguinario che l'America ha spodestato e consegnato alla giustizia del suo paese. È impossibile contestare questa verità, riproposta non solo agli americani. Le immagini di Saddam davanti ai giudici riaccesero le passioni. I sunniti rividero il rais; gli sciiti il despota. I primi riconobbero il leader che aveva garantito l'antica egemonia sunnita nel paese e si sentirono solidali con lui; i secondi l'uomo che li aveva repressi e umiliati, e invocarono la sua condanna a morte. I sentimenti erano in armonia con gli ammazzamenti sempre più frequenti tra sunniti e sciiti. I primi in generale solidali con l'insurrezione armata, i secondi con la polizia e l'esercito armati e pagati dagli americani. Chi aveva pensato che la cattura e il successivo processo di Saddam avrebbero via via smorzato la guerriglia saddamista, staccandola dalla componente cosmopolita, terroristica e islamista, dovette molto presto ricredersi. La violenza è aumentata e aumenta al punto da convincere un numero sempre più robusto di generali americani e inglesi che la partita irachena non può essere vinta dall'esercito più potente del mondo, e forse della storia. La parola "caos" ricorre sempre più spesso ad indicare una situazione che sfugge ad ogni azione razionale, militare o politica. In queste condizioni la giustizia affidata a un tribunale governativo, finanziato dalla superpotenza protettrice, non poteva essere che di parte.
Ha agito nel quadro di una guerra civile. Non esistevano e non esistono dubbi sui crimini di Saddam. Ma chi l'ha giudicato l'ha fatto con lo spirito di chi partecipa, appunto, a una guerra civile. Gli americani non volevano assumersi quel compito, in quanto "vincitori", e l'hanno lasciato agli iracheni. I quali non erano nelle condizioni di rispettare una procedura normale. Il primo ministro, Nuri Kamal al-Maliki, uno sciita, è stato chiaro quando, subito dopo la sentenza, ha dichiarato che essa servirà da esempio ai terroristi. Se il conflitto iracheno, come lasciano chiaramente intendere i generali americani, non sembra risolvibile sul piano militare, la condanna a morte (benché non esecutiva immediatamente), compromette qualsiasi, sia pur remota, possibilità di aprire uno spazio politico. Complica senz'altro la situazione.
2006-11-22
00:02:04
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Politica e governo - Altro