Dagli Stati Uniti arriva una nuova terapia genica che offre una nuova speranza ai pazienti affetti dal morbo di Parkinson. A metterla a punto è stato un team di ricercatori guidati da Michael Kaplitt del New York Presbyterian Hospital/Weill Cornell Medical Center. Per ora la terapia ha completato la prima fase di uno studio clinico che ha dimostrato la sicurezza della tecnica, l'assenza di effetti collaterali e ha mostrato degli ottimi risultati: ha migliorato le funzioni motorie dei pazienti e la loro capacità di svolgere attività quotidiani, inoltre, a distanza di un anno dal trattamento ha mostrato di avere effetti duraturi. Gli esperti hanno usato un virus non patogeno come veicolo della terapia genica e lo hanno fatto introdurre direttamente all'interno del cervello dei pazienti. Il dottor Kaplitt ha dichiarato: "Sono dati entusiasmanti, che devono essere confermati da una sperimentazione più ampia, ma crediamo di aver raggiunto una pietra miliare non solo per il Parkinson ma anche per l'uso della terapia genica in altre malattie neurodegenerative".
Il virus utilizzato come vettore appartiene alla categoria degli adeno-associati (AAV) e il gene introdotto è il gene GAD, che codifica per il più potente neurotrasmettitore inibitorio del cervello (GABA).
Il virus con il gene viene iniettato in una zona precisa del cervello, il nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio. Il neurotrasmettitore GABA "calma" i neuroni iperattivi ed è deficitario nei pazienti affetti da Parkinson che, di conseguenza, presentano disturbi motori e tremori. Iniettando il gene per il GABA all'interno del cervello, i ricercatori hanno tentato di stimolare la produzione del neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito motorio. La sperimentazione è stata condotta su 12 pazienti (11 uomini e 1 donna) di età media 58 anni e con uno stadio avanzato della malattia. Per sicurezza il gene è stato iniettato solo in un emisfero del cervello e ciò ha anche permesso di paragonare la funzionalità dei due emisferi. I progressi dei pazienti sono stati misurati tramite l'ausilio della scala di misurazione della progressione della malattia chiamata UPDRS. I miglioramenti sono stati significativi e hanno toccato il 65% e in generale i sintomi sono migliorati del 27%.
Kaplitt insieme al dottor Matthew During, dell'Ohio State University (co-autore dello studio) ha fondato la compagnia Neurologix, per sviluppare la terapia. "Crediamo che questa svolta abbia implicazioni che vanno anche al di là del Parkinson" spiega Kaplitt "Ci sono voluti quasi 20 anni per arrivare a questo punto, ma il successo di questa sperimentazione pone le basi per l'uso della terapia genica anche per altre malattie degenerative. Abbiamo dimostrato che può essere sicuro e sembra essere sufficientemente efficace da giustificare studi ulteriori, che potrebbero rivelarsi utili per molti disturbi cerebrali". Il dottor Fabrizio Stocchi, direttore del centro Parkinson dell'IRCCS San Raffaele di Roma, commenta così il lavoro: "I dati dimostrano l'efficacia e la fattibilità di questa tecnica, che ha solide basi scientifiche e anche sull'uomo non ha dato effetti collaterali, dimostrandosi sicuro: questa è senz'altro una novità positiva, ma è necessario avere cautela perchè siamo in una fase preliminare della sperimentazione. E' stata stabilita la sicurezza, ora bisognerà valutare, nelle fasi successive, l'efficacia in studi più ampi". La ricerca e i risultati della sperimentazione sono stati descritti sulla rivista Lancet.
Redazione MolecularLab.it (22/06/2007)
Parkinson:non solo farmaci
Cure «d’appoggio» esercizio fisico, supporto psicologico, dieta sono trattamenti ancora poco praticati
«Molti pensano che le terapie non farmacologiche siano secondarie, ma in realtà sono queste a fare la differenza. Il benessere del paziente è ben diverso se il medico si limita ad allungare una ricetta o se viene impostato un intervento a tutto tondo».
Senza dimenticare i farmaci, che cosa si può fare, allora, per stare meglio?
Prima di tutto, la terapia fisica: all'inizio può essere semplicemente fare movimento con costanza; con il passare del tempo può diventare una vera e propria fisioterapia.
È altrettanto importante ridefinire la dieta in modo da non interferire con l'effetto delle medicine e, anzi, potenziarne l'azione. Ed è utile partecipare a programmi di terapia occupazionale, attraverso cui ci si "riappropria" di semplici movimenti che la malattia rende difficoltosi. Se ci sono disturbi della voce, poi, è bene rivolgersi al logoterapeuta; se è l'umore ad andare giù, arriva in aiuto la psicoterapia e il sostegno psicologico per sé e per i propri familiari.
PERSONALIZZAZIONE
È altrettanto vero, però, che fin dall'inizio non si può fare a meno dei farmaci.
«Non è ragionevole aspettare a iniziare la terapia farmacologica» assicura il professor Pezzoli. «Di solito nelle prime fasi ci si affida ai dopamino-agonisti (vedi box sotto), scegliendo il farmaco e la dose in base alla risposta. Ma il trattamento dipende molto dalle necessità del malato: in un ottantenne si cercherà di non esagerare con le pillole, mentre in un paziente che voglia cancellare ogni sintomo della malattia si potrà iniziare con la levodopa, cioè con la medicina anti-Parkinson per antonomasia, cui tutti i malati prima o poi arrivano».
Efficace e poco costosa, la levodopa garantisce un buon controllo dei sintomi, ma ha un neo: con il tempo, il suo effetto diventa instabile e compaiono le cosiddette discinesie. In parole semplici, attacchi in cui il malato è scosso da movimenti incontrollabili. «Rispetto al passato, oggi riusciamo a contenere la malattia molto meglio, anche grazie agli altri farmaci» rassicura Pezzoli. «Se quindici anni fa le fluttuazioni della terapia con levodopa comparivano dopo cinque anni dalla prima pillola, oggi, poiché utilizziamo dosi inferiori, i primi problemi si accusano dopo otto, dieci anni».
Secondo le linee guida italiane di trattamento del Parkinson, da poco comparse su Neurological Sciences, la scelta del farmaco dipende dall'età del paziente al momento della diagnosi
Parkinson a esordio giovanile (meno di 50 anni): si inizia con i dopamino-agonisti da soli, per evitare il rischio di sviluppare gli effetti collaterali da levodopa in pochi anni; in seguito, si aggiunge levodopa alle dosi più basse possibili.
Parkinson che compare fra i 50 e i 70 anni: è possibile scegliere i dopamino-agonisti da soli, la levodopa a basse dosi o un'associazione fra questi farmaci.
Parkinson che esordisce dopo i 70 anni: si può iniziare con levodopa da sola o in associazione con un dopamino-agonista.
Fonte: Corriere della Sera (11/01/2004)
Pacemaker nel cervello contro morbo parkinson
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Un pacemaker contro il Parkinson: e' l' innovativo metodo nella cura del morbo sperimentato dal policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, dove da gennaio ad oggi gia' cinque pazienti hanno fatto ricorso a questa nuova tecnica di neurochirurgia funzionale.
''Con un intervento di alta tecnologia e chirurgia spiega il dottor Giorgio Mencattini posizioniamo in una zona del cervello molto profonda, il nucleo sottotalamico, due elettrodi collegati ad un neurostimolatore che viene applicato sotto la pelle, simile ad un peacemaker''.
L' intervento, in pratica, permette ai pazienti affetti da Parkinson di ricominciare a muoversi ed eliminare la rigidita' nelle normali attivita' quotidiane. Un risultato importantissimo per chi e' colpito dalla malattia, che in Toscana riguarda circa 10 mila persone, tra cui giovani, ed e' fortemente invalidante.
''L' elettrostimolatore aggiunge Mencattini sollecita continuamente il nucleo sottotalamico, che e' la zona del cervello dove vengono modulati i movimenti e, in questo modo, i pazienti possono ricominciare a muoversi agilmente''.
Questo tipo di intervento - si legge in una nota dell' ospedale senese - e' l' unica vera alternativa al trattamento farmacologico con dopamina, comunemente utilizzata nel trattamento del Parkinson ma che presenta pesanti effetti collaterali.
Fonte: Ansa (28/09/2004)
2007-10-09 20:56:35
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answer #1
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answered by sun 7
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