Nasce una leggenda
Secondo l’ingegnere aeronautico John McMastes, la storia del calabrone iniziò a circolare in Germania negli anni Trenta del secolo scorso e precisamente all’università di Göttingen: proprio il luogo in cui Ludwig Prandtl (1875-1953) gettò le basi della moderna fluidodinamica [1].
Secondo McMastes, il primo a proporre questo enigma fu un professore svizzero, da tempo scomparso, che aveva svolto studi pionieristici sulla dinamica dei gas a velocità supersoniche nel corso degli anni Trenta e Quaranta. La storia vuole che durante una cena questo scienziato ebbe una conversazione con un collega biologo il quale gli pose la domanda fatidica: "che proprietà aerodinamiche avevano le ali dei calabroni per permettere loro di volare". Lo scienziato fece alcuni rapidi calcoli, immaginando che le ali di questi insetti fossero lisce e prive di increspature. Le conclusioni furono sorprendenti: in base ai calcoli, i calabroni non dovevano essere in grado di sostenersi nell’aria!
Evidentemente qualcosa non tornava. Ben presto lo studioso tedesco si accorse che l’errore risiedeva nella sua assunzione di partenza: come un esame al microscopio gli aveva confermato, le ali di questi insetti non erano affatto lisce.
Ormai era troppo tardi per arrestare il mito dell’impossibilità del volo del calabrone che aveva iniziato a propagarsi di bocca in bocca, anche grazie all’aiuto di giornalisti e divulgatori scientifici. Già nel 1957, J. Pringle, autore di un classico studio sulla meccanica del volo degli insetti, era stato in grado di ricostruire alcuni dei momenti più significativi del propagarsi della leggenda. Più che ricostruirne le fasi, è interessante esaminare le ragioni che portarono inizialmente a valutare l’impossibilità del volo del calabrone e successivamente analizzare attraverso quali accorgimenti fisici questi insetti riescono effettivamente a sostenersi nell’aria.
Perché volano i calabroni
Le considerazioni iniziali dell’anonimo scienziato tedesco, presupponevano che se le ali dei calabroni avevano una superficie liscia, dovevano avere un numero di Reynolds molto basso. Con questo termine, che prende il nome di un noto ingegnere meccanico dell’Ottocento, siamo in grado di avere una valutazione del rapporto tra le forze di viscosità di un fluido e quelle inerziali, ossia il prodotto della massa di un oggetto che si muove attraverso di esso per l’accelerazione che subisce. Una particella di polvere che galleggia nell’aria ha numeri di Reynolds molto bassi (da 1 a 10) mentre i jet a reazione hanno valori che superano i dieci milioni. Le ali degli insetti si situano nella parte basse di un grafico che rappresenta la velocità rispetto ai numeri di Reynolds con valori tra 100 e 10.000. Un modo per rappresentarci questa situazione è quello di immaginare che essi debbano volare con le loro piccole ali in un fluido che per loro è molto viscoso, come una specie di melassa. Assumendo per le ali del calabrone un valore così basso e una superficie liscia, si doveva supporre che il flusso dell’aria su di esse fosse laminare, ossia privo di turbolenze. Questo comportava una mancanza di adesione tra l’aria e la superficie dell’ala con conseguente perdita di portanza, la grandezza che sostiene un aereo in volo e ne impedisce lo "stallo", ossia la caduta verticale. Intuitivamente l’aerodinamica del calabrone non è delle migliori: mentre gli uccelli hanno un’apertura alare che permette loro di planare per lunghi tratti, le ali di questi insetti sono ridicolmente piccole e se raccogliamo un calabrone morto e lo lasciamo cadere, questo precipita a terra come una pietra per effetto del proprio peso. Come risolvere allora il mistero del suo volo? La risposta è che l’insetto ha trovato un modo per sostenersi nell’aria, sfruttando la turbolenza creata dal furioso sbattere delle sue piccole ali.
Già nel 1975, Christopher Rees comunicava sulla rivista scientifica Nature alcune osservazioni sulla forma e la funzione della corrugazione nelle ali degli insetti, osservando che la successione di sezioni fortemente irregolari che le caratterizzavano avevano dei grossi vantaggi aerodinamici senza compromettere l’aerodinamica. In effetti, lo scienziato mostrava come, mettendo in un grafico la portanza e la resistenza aerodinamica di queste ali, esse mostravano caratteristiche simili a quelle del profilo alare convenzionale di un aeroplano. Ma le spiegazioni più recenti sul volo degli insetti hanno imboccato un percorso diverso da quello dell’aerodinamica classica, prendendo in considerazione gli accorgimenti per volare in condizioni di instabilità.
Ritornando al nostro calabrone, era necessario spiegare come riuscisse a sfruttare la turbolenza aerodinamica che creava attorno a sé per mantenersi in volo. Ormai era chiaro che l’aerodinamica degli insetti era diversa da quella fino ad allora studiata dai tecnici aeronautici, che consideravano delle ali fisse e un flusso d’aria uniforme.
Utilizzando riprese cinematografiche ad alta velocità dei battiti delle ali, e confrontandole con modelli di simulazione al computer, si scoprì attorno al 1990 che gli insetti creavano dei vortici d’aria attorno a un nucleo centrale [2]. In questo modo la portanza, ossia la forza che li tiene in volo, non era generata in modo continuo, come avviene per le ali degli aerei, ma a scatti. In effetti, gli insetti usano le loro ali in modo più simile a quello degli elicotteri che a quello degli aeroplani per spostarsi orizzontalmente, ma anche verticalmente, in diagonale e per restare sospesi nell’aria. A differenza degli elicotteri, che hanno un asse centrale di rotazione, questi animaletti battono le ali verso il basso, quindi le ruotano verso l’alto, le ribattono verso l’altro, le ruotano di nuovo e così via; questi movimenti non avvengono necessariamente verticalmente rispetto al suolo ma anche obliquamente, permettendo di manovrare nello spazio. I vortici creati da queste manovre fanno scorrere più velocemente l’aria nella superficie superiore dell’ala che in quella inferiore, creando una differenza di pressione che genera la portanza necessaria per mantenersi in volo.
Il pericolo in agguato, a questo punto, diventa lo stallo, ossia la perdita improvvisa di portanza che dipende dall’angolo tra l’ala e il flusso d’aria che arriva su di essa. Quando un’ala con un grande angolo d’attacco è accelerata fortemente, si crea temporaneamente un nuovo vortice d’aria che aggiunge portanza ritardando lo stallo. Per gli insetti si riteneva che questo fenomeno fosse troppo effimero per contribuire significativamente alle loro capacità di volo, ma nel 1996 Charles Ellington e un gruppo di collaboratori del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge in Inghilterra, dimostrarono il contrario [3]. I ricercatori studiarono la Manduca Sexta, una falena che era già stata utile alla scienza negli studi di endocrinologia e di neurologia. Ellington e soci utilizzarono le osservazioni effettuate con una tecnica fotografica tridimensionale dei movimenti delle ali e un’analisi al computer delle stesse. Confrontarono quindi il tutto con il comportamento di the flapper: un robot che imitava meccanicamente i movimenti e le deformazioni delle ali dell’insetto con una frequenza di battito inferiore per tener conto delle dimensioni dieci volte superiori a quelle della Manduca. I ricercatori scoprirono che in questa situazione si formava sul bordo delle ali un vortice che restava attaccato alle stesse, muovendosi a spirale lungo la superficie e creando una zona di bassa pressione. Questo spiegava perché gli insetti sapevano creare una portanza tre volte superiore a quella che risulterebbe dai calcoli dell’aerodinamica convenzionale e perché non avveniva lo stallo che ci si sarebbe aspettato in quelle condizioni.
Le osservazioni fotografiche delle turbolenze che si formavano lungo le ali di the flapper, quando questo era messo in una "camera a fumo", mostrarono chiaramente il fenomeno nel suo verificarsi. In seguito a questo lavoro pionieristico, in vari laboratori sono stati messi a punto differenti modelli meccanici per comprendere sempre più accuratamente il volo degli insetti anche se gli studi dovranno protrarsi ancora per anni prima di poter sperare di vedere un robot-insetto in grado di volare autonomamente [4].
La formazione del "vortice spiraliforme" era una buona spiegazione nel caso di grossi insetti con un’apertura alare relativamente ampia. Nel caso degli insetti più piccoli, però, le forze di viscosità tendevano a dissipare molto presto il vortice ed era necessario trovare un ulteriore meccanismo che permettesse loro di volare [5]. Ancora una volta la soluzione venne da un insetto-robot che simulava la Drosophila: un altro animale studiatissimo dalla ricerca genetica e biologica.
Nel 1999 comparve sulla rivista Science un articolo firmato da Michael Dickinson, un esperto di fisiologia e di meccanica del volo e un gruppo di collaboratori [6]: gli scienziati avevano immerso in olio minerale un modello meccanico di Drosophila di 24 centimetri per simulare la viscosità che l’insetto reale prova mentre volava; una serie di motori collegati alle ali del robot permetteva la simulazione dei movimenti reali inclusa la rotazione al termine di ogni battito. Attraverso una serie di trasduttori di pressione collegati alle ali, gli studiosi misurarono delle forze superiori a quelle che ci si sarebbe aspetti in condizioni non dinamiche. Succedeva che con il movimento delle ali l’insetto "catturava" il vortice formato durante il precedente battito. Un altro fattore cruciale evidenziato dai ricercatori era l’elevata sensibilità a piccole alterazioni nella sincronizzazione della rotazione delle ali, in grado di cambiare in modo considerevole sia l’intensità sia la direzione delle forze che agivano su di esse: nella "aerodinamica instabile" del mondo degli insetti anche questo era da mettere in conto.
Le più recenti teorie e i modelli proposti sul volo degli insetti sono in grado di spiegare il paradosso del volo del calabrone? Gli esperti sono propensi a credere che ogni tipo di insetto abbia sviluppato il suo modo particolare di sfruttare l’aerodinamica instabile. L’osservazione diretta e il confronto con simulazioni al computer e modelli meccanici hanno svelato i segreti del volo di alcuni insetti come la Drosophila e la Manduca; non ci sono ragioni per credere che ciò possa avvenire anche per il nostro calabrone. Frattanto, in questi ultimi anni, i progressi nella comprensione dell’aerodinamica degli insetti sono stati costanti al punto che gli specialisti credono che la creazione dei primi insetti robotizzati sia ormai a portata di mano [7]. Ribattezzati Microveicoli aerei (MAV) essi saranno dotati di minuscoli trasmettitori radio ed altri sensori, e potranno essere impiegati per volare in luoghi angusti e difficoltosi da raggiungere per gli uomini; ad esempio, controlleranno la tenuta e il livello di sicurezza della complessa rete di tubazioni che trasportano i gas e le sostanze chimiche nelle grosse industrie.
Attualmente, almeno tre nazioni stanno studiando i propri MAV e, ovviamente, non è mancato l’interesse per possibili impieghi militari e nel campo dello spionaggio; se questi saranno portati a termine, il povero calabrone e coloro che ne hanno studiato l’impossibile volo, sono innocenti.
2007-02-27 21:10:16
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answer #1
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answered by zeroseigrande 4
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Si tratta di una leggenda metropolitana. Il riferimento cambia da fonte a fonte ("manuale di ingenieria aeronautica dell'università di oxford", "scritta all'ingresso dell'università aeronautica di cambridge".) L'insetto a cui ci si riferisce in inglese è "bumblebee", erroneamente tradotto come calabrone, si tratta in realtà del bombo (Bombus sp.). Qui sotto trovi il link all'articolo che spiega l'origine del mito.
Comunque è una citazione molto divertente, che ha ispirato anche la novella "The Bumblebee Flies Anyway" di Robert Cormier e un film omonimo di Elijah Wood.
(zeroseigrande: otiimo, ma sarebbe corretto citare le fonti!)
2007-02-27 21:35:10
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answer #2
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answered by jhon d 5
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