Perchè teatro e altre arti?
Il teatro, come il cinema, la pittura, la letteratura e la musica, è una forma d’arte.
I meccanismi complessi del teatro sono in strettissima correlazione con le altre arti.
Pittura, musica, luci, parola si compongono a teatro in un’opera totale che viene presa come punto di riferimento durante la progressiva nascita del cinema, quando il movimento scenico viene colto come oggetto (in movimento) primo e privilegiato della ripresa (originariamente a camera fissa).
L’etimologia greca di teatro è nel verbo teatron “vedere” proprio perché nello sguardo si racchiude la totalità dell’atto artistico.
Il teatro si fa vivo e vero insieme all’uomo, si nutre – attraverso le epoche – del genio di chi ha scritto i testi, di chi ha ideato le messe in scena, di chi ha recitato sotto la guida di autori e registi, procedendo a continue sperimentazioni: nel teatro drammatico e comico, nel teatro di gesto e di parola (dalle analisi teoriche di Evreinov alla reductio ad absurdum sostenuta in Italia da Pirandello, dalle innovazioni di Adolphe Appia alla lotta contro la falsità del mondo realistico e alle ricerche illuministiche di Craig, dallo sviluppo del teatro-danza, a quello al confine con l’acrobazia di Barberio Corsetti, dal teatro autoriale cechoviano a quello “povero” grotowskiano, ecc. ecc.).
Teatro e storia
Oltre duemila anni fa il teatro nasceva come esperienza totale per le persone che la vivevano e nella capacità di ricezione di tutti i sensi in gioco: udito, tatto, vista, olfatto.
Nell’antichità il teatro non era separato dal flusso della quotidianità, della vita in comune: era ad esso legato come momento di riflessione e – attraverso la catarsi – come atto di comprensione più profonda dell’esistenza stessa.
Aristotelicamente imitazione della vita, spazio o trampolino per osservare l’esistenza dall’alto o dal basso, o da qualsiasi punto di vista si possa riflettere sulla realtà.
il teatro può liberarsi di tutto tranne che dell’attore, notava Grotowski lavorando alla definizione (per sottrazione) del teatro povero.
La scena della commedia del Cinquecento era legata ai rapporti di forza e alle idiosincrasie delle corti dell’epoca, alla loro “dissimulazione onesta”.
Oggi, alle infinite possibilità di allestimento verosimile della scena, anche esclusivamente illuministico, ottenute attraverso la perfezione tecnica del digitale, si affianca un ritorno al corso inaugurato, tra fine ‘800 e inizi del ‘900, da una volontà di evadere in un mondo sempre più totalmente “teatrale” (caratterizzato da una connotazione fortemente simbolica, metaforica, allegorica).
In questa sezione si darà particolare attenzione alla “mise en scène”, in una tensione all’ascolto dell’identità di forma e contenuto dell’espressione teatrale tenendo conto della proiezione storiografica nella quale essa si pone (il teatro nasce come dialogo e vive nell’interazione tra personaggi; fondamentale è il processo di contrapposizione-interazione-sovrapposizione di epica e dramma; interessante è osservare il dualismo tra testo e messa in scena tipico della cultura teatrale occidentale, e italiana in particolare, ecc.)
Teatro-danza
All’origine del teatro, all’origine della commedia e della tragedia classica, l’universo – espresso nella danza totale fatta di canto e movimento e recitazione in versi del coro – emerge dal magma della totalità.
La danza comincia in questa sede a formare quella disciplina del gesto che nei secoli sarà codificata, resa autorità, talora espressione della massima libertà, talora in senso negativo prigione di un corpo virtuale, anche a teatro.
Nella danza, nel suo codice, nella sua forma di cannibalismo del gesto, ogni invenzione – e resistenza – ogni nuovo movimento è nella condizione di poter mettere in crisi l’habitat creativo, la società.
il teatro-danza è certamente l’arte che gioca di più oggi con le molteplicità di chiasmi, coercizioni, ripetizioni dell’identico, del discreto che ripropongono con insistenza il rinnovamento delle dimensioni necessarie all’invenzione del reale.
Teatro e digitale
Nella cultura orientale la consapevolezza maggiore dell’ “idea del discreto” nelle forme spettacolari ha anticipato le applicazioni delle nuove tecnologie del digitale nel teatro contemporaneo.
Ad esempio, nel teatro nō, il carattere digitale dell’espressività traspare dal passaggio, nei movimenti che conducono l’attore sul palco, da semplice traslazione in danza: movimenti rettilinei, segmentati, privi di scarti (così come i gesti, pochi, selezionati, di valore ornamentale o denotativo), al di là dell’ondeggiamento della figura.
Il movimento lineare composto da unità discrete offre il senso della distanza infinita (come infinita è la ripetizione possibile di un fotogramma digitale) che trasporta lo spettatore in un’illusione di perfezione sognata e immateriale.
Questo avviene una volta di più nella trascrizione dell’immagine sullo schermo, attraverso i sistemi di sensori che possono essere applicati sul corpo dando vita al ghost-catching (anche se si tratta di un movimento artificiale, simulato).
Il digitale e l’analogico, nell’arte, nel teatro o nel cinema, come nella vita, non possono che fungere da completamento reciproco, almeno a livello concettuale, anche se, nell’applicazione pratica, i due termini scaturiscono da un’opposizione radicale che porta ad una volontà d’indagine scomposta al fine di un’ulteriore digitalizzazione del pensiero e dell’azione.
Così, nel teatro o nel cinema, il ritorno ad una narrazione che rifugge la drammatizzazione a vantaggio di una narrazione tout court, quasi scansionata e, almeno apparentemente, offerta all’occhio dello spettatore nuda, scoperta nei suoi meccanismi e nei suoi processi evolutivi (e non nel suo farsi/agirsi attraverso l’interazione dei personaggi), si pone un po’ come la banda su cui si riversa il film in un programma di montaggio digitale.
Lettura aperta ad interventi interni alla natura stessa delle sue dimensioni, temporali, spaziali partendo dalla constatazione che “l’azione soffre la discontinuità”.
In questo spazio si procederà ad un’analisi della drammaturgia multicomposta, che vedrà interagire oltre alla struttura narrativa le intertestualità visive, sonore, animate e agenti come personaggi.
Durante le sperimentazioni dei primi del Novecento - come quelle sull’“io epico” di Piscator, espresso da cori, proclami, brandelli di riprese di folle - il mezzo di riproduzione audiovisivo e cinematografico si poneva l’obiettivo di allargare epicamente il quadro drammatico, introducendovi elementi narrativi e descrittivi che rendevano visibile e al tempo stesso distaccato un determinato evento dalle implicazioni sociali, economiche e storiche.
Oggi, il cinema attinge al teatro spogliandosi in parte di un certo tipo di montaggio cinematografico, costruendo un montaggio teatrale di piani sequenza e una strategia di abbandono alla soggettività dello spettatore fino ad un utilizzo estremo della semantica teatrale (vedi Dogville di Lars Von Trier).
Le nuove tecnologie aprono sempre più l’orizzonte a contaminazioni evidenti e forti che, al tempo stesso, rivendicano autonomie giustificate dall’efficacia con cui si impiega il mezzo contaminato.
Ad esempio, nel film Dogville, gli effetti illuministici sono - solo apparentemente o forse realmente - quelli presenti su una scena teatrale. Da un lato, l’effetto di verosimiglianza, carattere prettamente cinematografico, si perde nella finitudine di una scena teatrale: lo stesso trompe l’œil si potrebbe avere a teatro.
D’altro lato, l’elemento fondamentale del teatro – la sincronia tra la performance scenica, e quindi dell’attore, e la visione dello spettatore, nello stesso ambiente e nello stesso momento – viene a mancare.
Lo spettacolo perde la sua unicità agli occhi dello spettatore, sostituita dalla modalità della potenziale infinita ripetizione dell’“uguale a se stesso” del cinema.
Le interrelazioni tra cinema e teatro – partendo dall’ipotesi di un superamento, anche grazie alle nuove tecnologie del digitale, della “rivalità” emersa sin dagli inizi del secolo – hanno suscitato numerose discussioni nell’esame del pubblico al quale il teatro si rivolge o dovrebbe rivolgersi.
È interessante indagare in che modi, grazie anche a tali nuove tecnologie, il cinema assimila caratteri forti del teatro e delle altre arti rispecchiando una realtà sociale in grado di rielaborare una nuova dimensione del virtuale.
Il montaggio cinematografico, nella forma esplicitata della caméra-stylo, doveva essere un’estensione delle potenzialità immaginative dello spettatore, non una sua coercizione. In questo, da sempre, il teatro è maestro. Sulla scena come forse accade solo nella lettura, qualsiasi dimensione essa abbia, sia essa frontale o multidirezionale, basata sulla linearità o intertestualità della comunicazione, lascia piena libertà allo spettatore di selezionare la sua porzione visuale, come la sua elaborazione dei rapporti tra movimenti e dialoghi.
Il montaggio cinematografico applicato alla scena potrebbe essere pericolosamente castrante in questo senso, come è nella maggior parte dei prodotti delle industrie cinematografiche che inondano le nostre sale.
le nuove tecnologie possono procedere in ambiente informatico alla riduzione in informazione di una scrittura o di un’immagine al fine di far dialogare testi diversi in un contesto multimediale e studiare le possibilità di commistione tra sistemi di riferimento differenti.
Bergson e Deleuze sostenevano che ogni attività psichica è retta da un doppio sistema di immagini: un primo, in cui ciascuna immagine varia per se stessa e tutte le immagini agiscono e reagiscono su tutte le loro parti simultaneamente, in funzione una dell’altra (cinema). Un secondo, in cui tutte le immagini variano principalmente per una sola che riceve l’azione delle altre su una delle sue facce e vi reagisce su un’altra faccia (teatro).
2007-01-10 06:22:32
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answer #1
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answered by ღMiss Lillyღ 5
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