Londra, Annus Domini 1962 (l'anno di pubblicazione del romanzo da cui la pellicola è tratta). La giornata proprio non vuol passare senza un buon bicchiere di «latte più», un beverone «rinforzato con qualche droguccia mescalina» reperibile al Moloko Milk Bar - uno dei tanti pub underground in voga all'epoca - «arrovellandosi il gulliver» in attesa di saper cosa fare della serata. Così Alex - un giovane senz'arte né parte, figlio di operai che vivono nei «sobborghi di periferia» (come avrebbe cantato Eros Ramazzotti) - fra una bevuta e l'altra si dedica all'esercizio della «amata ultraviolenza», fatta di furti, stupri ed omicidi, assieme agli altri tre spostati della sua banda: i «drughi».
Sempre meglio che andare a scuola: si fatica di meno e ci si guadagna di più.
E poi, diciamo la verità, «vivere» significa, un po', «essere violenti» (o, perlomeno, lo implica).
Si pensi, con mente aperta e senza troppi vincoli filologici alle nostre radici linguistiche, che chiamavano la «vita» e la «violenza» con termini la cui assonanza è palese: rispettivamente, bioV e bia in greco, vita e vis in latino; in quest'ultimo idioma col termine vir era designato il vero uomo, quello che ancor oggi si definisce «virile».
Alex, senza dubbio, l'ha interpretata così.
Il giovane vive in un piccolo appartamento nel casamento municipale 18A della «zona nord», nello squallido e sterminato hinterland londinese.
Nei cassetti del proprio comodino, all'interno di un'angusta cameretta, Alex nasconde, oltre ad un serpente (allevato in compiaciuta adorazione di quello biblico) e alle preziose mini-audiocassette con le sinfonie di Ludwig van Beethoven, una ricca refurtiva frutto delle quotidiane scorribande notturne.
Le mattinate le trascorre immancabilmente a poltrire fino a tardi, con l'improbabile scusa di tremende e ricorrenti emicranie.
Dopo un complotto ordito ai suoi danni dagli stessi «compagni di merende» coi quali di notte «aiuta di qua e di là, come capita», a causa di screzi precedenti, finisce dritto in galera, condannato a 14 anni di pena detentiva nella prigione 84F - «fra checche puzzanti e psicopatici professionali» - per l'omicidio della ricca e stravagante proprietaria di una clinica per dimagrire, fuori città. Comincia, così, la sua personale odissea nelle carceri di Sua Maestà, sottoposto ad innumerevoli soprusi ed angherie da parte di guardie brutali, criminali e pervertiti d'ogni sorta.
Ma lui si fa amico un ministro del culto anglicano e, pur di essere scarcerato, dopo due anni passati nell'inferno della giustizia di Stato britannica, accetta di farsi sottoporre volontariamente al «trattamento ludovico».
L'esperimento consiste in una terapia d'urto forzata a base di nuovi ritrovati farmacologici affiancati all'esposizione prolungata del soggetto a filmati di violenza gratuita.
Ciò ne dovrebbe decretare la finale idiosincrasia nei confronti della soperchieria e dell'aggressività umana.
Ma, per affidarsi alla saggezza popolare, «non tutte le ciambelle riescono col buco»; e se «il diavolo insegna a far le pentole», per i coperchi occorre arrangiarsi da sé.
Cosa suggerisce la visione di questo geniale lungometraggio di Stanley Kubrick, tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore cattolico, di origine inglese, Anthony Burgess?
Suggerisce l'impressione che il «male» non sia curabile, se non per intercessione divina.
Alex ne è l'incarnazione.
Egli è l'Anticristo fatto persona, che il «male» non si limita a compierlo: lo rappresenta in se stesso. Quella è la sua natura e non può farne a meno.
Non è stata la famiglia - quei due poveracci ignari dei suoi genitori - o la società - come avrebbe voluto Jean-Jacques Rousseau - a corromperlo, a renderlo aggressivo.
Come tenta vanamente di spiegare anche il cappellano al politico ebbro di ubriV per i progressi della scienza medica applicata alla giurisprudenza, evocando l'esercizio del libero arbitrio: «la bontà viene da dentro. La bontà è una scelta. Quando un uomo non ha scelta, cessa d'essere uomo».
Alex, semplicemente, è così!
In lui il «male» acquista quella nobiltà che è propria della purezza: non ha remore o indugi quando compie i suoi crimini, né ripensamenti o sensi di colpa dopo, giacché deve farli, in quanto vive e si nutre di essi.
Una buona bevuta e la Nona nel mangianastri faranno il resto.
Ma in questa malvagità «pura» non sembra neppure moralmente condannabile: sarebbe come voler condannare un serpente perché è velenoso, o un giaguaro perché divora l'innocente e gracile gazzella.
Non si può: perché è la loro natura.
Qual è, allora, il vero errore della società?
L'errore sta nel cercare di «rieducarlo».
Il «male» non si rieduca: il «male» si estirpa!
Come la gramigna, che nessun buon contadino tenta di mutare in saggina.
Nel folle intento, infatti, la società consegue unicamente il vano risultato d'influire sul suo corpo, ma non sulla sua essenza: quando lo incarcera gli impedisce di nuocere al suo prossimo soltanto perché è recluso; tuttavia, lui continua a pensare allo stesso modo (sebbene le stupide «istituzioni» non se ne diano conto) e recepisce solo il «male», ovunque e da tutto ciò che lo circonda.
Legge e rilegge, ad esempio, la Sacra Scrittura, ma solamente per immaginarsi nei panni di un flagellatore del Cristo!
Lo sottopongono ad una cura sperimentale e lui prova nausea e sofferenza nel corpo, essendo materialmente incapace di compiere crimini, ma proprio perché nella sua mente continua, incessantemente, a contemplare il «male».
Due vie soltanto, fra loro antitetiche, sembrerebbero possibili: la misericordia compassionevole di quella carità ad oltranza che alcuni benpensanti supporrebbero «cristiana»; il perdono e la sofferenza dell'intransigente lotta che il fedele adotta contro il demonio, rifiutando di far uso delle sue stesse armi.
Oppure, l'offerta sacrificale da immolare sull'altare con feroce spirito «pagàno».
Tertium non datur.
E Kubrick, come Burgess, sembra suggerire, per contrasto, la seconda strada: l'unica vera soluzione, pare voler dire allo spettatore rapito ed attonito, sarebbe ucciderlo, una volta per tutte, liberandone così la parte sana della comunità.
Ma, in realtà, a condannare la pena capitale non è il cristianesimo, bensì una cultura «politicamente corretta» del «pensiero debole», che la giudica come un esempio intrinsecamente contrario ai sentimenti di «tolleranza» e di «umanità».
Non è certo la Chiesa cattolica, che - perlomeno storicamente - ne ha sostenuto per quasi duemila anni la liceità, occupandosi di giustificarla perfino da un punto di vista teologico.
A Clockwork Orange diviene, pertanto, una denuncia implicita - voluta o non voluta - dell'ateismo, che risulta essere proprio il motivo ultimo per il quale Alex non viene condannato a morte.
In una società con il senso del «sacro» egli sarebbe stato sacrificato (l'etimologia tradisce il senso) per tutelare il bonum commune.
Nel nichilismo profondo che attanaglia le attuali società «secolarizzate», invece, dove il massimo valore da preservare è la vita terrena, proprio perché «sappiamo» che dopo non c'è n'è un'altra ma rimane soltanto il «nulla», si tenta di «reinserirlo», di «recuperarlo».
Qui sta il tragico errore: voler rigettare la mela marcia nel paniere.
È solo questione di tempo: presto o tardi guasterà anche le altre, spargendo nuovamente miseria e terrore non appena squillerà il timer innescato dal meccanismo ad orologeria della sua Arancia Meccanica.
2006-12-12 17:00:05
·
answer #7
·
answered by Anonymous
·
0⤊
0⤋