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poi...1)strategie per accellerare i processi di aprendimeno
2)nuove teccnologie di apprendimento
Vi prego aiutatemi..............baci e grazie

2006-11-12 08:03:26 · 2 risposte · inviata da ver 2 in Scuola ed educazione Insegnamento

2 risposte

I vivaci dibattiti sulla scuola non si limitano alla programmazione didattica e alla pianificazione disciplinare, bensì rinviano a domande basilari intorno a cosa debba intendersi con la parola "educare": quali obiettivi deve porsi l'educatore? Cosa ci si aspetta dell'istruzione scolastica? Che cosa si propone una società quando investe nell'educazione dei giovani? Bruner lega l'idea di educazione al processo dell'apprendimento, quale emerge dagli studi più recenti della nuovissima "psicologia culturale", e al concetto di cultura, come patrimonio di conoscenze ma anche come particolare modo di percepire, pensare, sentire e argomentare.
Lo psicologo e pedagogista statunitense Jerome Bruner divenne famoso negli anni sessanta per avere sostenuto, in polemica con i seguaci di Dewey, che privilegiavano la socializzazione, l'opportunità di un'istruzione intellettuale e scientifica precoce, sulla base di una precisa identificazione degli stadi cognitivi, strutturati intorno all'azione, all'immagine, ai simboli astratti. Da allora il suo percorso è stato lungo e complesso, come dimostra anche questo libro, per il quale vale quanto scrisse nella prefazione a "La ricerca del significato" (Bollati Boringhieri, 1992): "I libri sono come vette di monti che spuntano alla superficie del mare: per quanto possano apparire isole a sé stanti, esse sono in realtà nient'altro che rilievi di una configurazione sotterranea".
"La cultura dell'educazione" si presenta come un lavoro ad ampio raggio nel quale vengono a convergere aspetti autobiografici, impostazioni maturate specie nell'ultimo decennio, strategie riguardanti la cultura, l'educazione, la scuola. Il discorso, anche sul piano argomentativo, si fa più articolato, nel senso di individuare i limiti dei modelli psicopedagogici che avevano stabilito rapporti privilegiati con la fisica, la biologia, la computazionalità, e di proporre, invece, le valenze della "psicologia culturale", attenta alle componenti autobiografiche e narrative: "Solo la narrazione consente di costruirsi un'identità e di trovare un posto nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla per scontata". Ne deriva un'attenzione particolare alle tecniche e agli assetti logici della cultura letteraria.
Centrale diventa la presa di distanza dagli impianti scientifici e metodologici legati a processi cognitivi standardizzati, oggettivi, schematici, categoriali. Non stupisce più di tanto l'affermazione che "il processo di fare scienza è narrativo"; la narrazione viene rivalutata "come modo di pensare, come struttura per organizzare la nostra conoscenza e come veicolo nel processo dell'educazione, e in particolare dell'educazione scientifica".
La revisione critica degli assetti cognitivi delle metodologie scolastiche lo porta ad approfondire tematiche che sono diventate, ormai, punti di riferimento delle nuove scienze dell'educazione, come le teorie della mente su cui Bruner aveva lavorato in "La mente a più dimensioni" (Laterza, 1988). Alcune affermazioni sono significative: "Il bambino (o chiunque altro) "possiede" una teoria della mente"; "Trattando il bambino come si sapesse che cosa ha in mente e dimostrando l'aspettativa che lui sappia cosa abbiamo in mente noi, gli consentiamo di progredire verso lo sviluppo di una teoria della mente utilizzabile". Si sa che su questo tema hanno insistito Howard Gardner e gli esponenti della teoria della complessità.
L'attenzione è spostata giustamente sulla mente, sulle teorie, sulle culture, sui contesti del narrativo, sulla complessità dei problemi educativi. In questo quadro acquistano rilievo le sue osservazioni relativamente all'educazione e alla scuola: "Ho cercato di dimostrare che l'educazione non è semplicemente una questione tecnica di buona gestione dell'elaborazione dell'informazione, né si può limitare all'applicazione di 'teorie dell'apprendimento' o all'impiego dei risultati di un test delle prestazioni centrato sul soggetto. È invece un'attività complessa, che si propone di adattare una cultura alle esigenze dei suoi membri e i loro modi di conoscere alle esigenze della cultura".
È senz'altro da tenere in grande considerazione la proposta di Bruner di impostare il discorso educativo e pedagogico con una documentata apertura al narrativo e, in particolare, alla cultura letteraria. Non sono tuttavia da sottovalutare, da un lato, i rischi di un'eccessiva curvatura sul raccontare, sull'aspetto autobiografico, e, dall'altro, di non tener conto che l'assetto linguistico ed epistemologico dei nuovi orientamenti scientifici, anche con l'apporto di Bruner, è completamente cambiato rispetto ai modelli scientifici a cui psicologia e pedagogia erano tradizionalmente legate.
Una teoria dell’istruzione è prescrittiva nel senso che formula regole concernenti il modo piú efficace per raggiungere una determinata conoscenza o abilità. Al tempo stesso essa offre l’unità di misura per valutare criticamente ogni particolare metodo di insegnamento e di apprendimento.

Una teoria dell’istruzione è una teoria normativa, in quanto fornisce dei criteri e stabilisce le condizioni per soddisfarli; questi criteri debbono essere di carattere altamente generale: per esempio, una teoria dell’istruzione non dovrà specificare in maniera estremamente minuta ed esatta le condizioni ottimali necessarie allo studio dell’aritmetica nella terza elementare; tali condizioni dovranno derivare principalmente da una visione piú ampia dell’apprendimento della matematica. A questo punto ci si potrebbe chiedere per quale motivo si renda necessaria una teoria dell’istruzione, dal momento che in psicologia esistono già delle teorie dell’apprendimento e dello sviluppo. Tali teorie sono però descrittive anziché prescrittive, in quanto ci mostrano ciò che è avvenuto, dopo che l’evento si è già verificato: per esempio, il fatto che la maggior parte dei bambini di 6 anni ancora non possieda la nozione di reversibilità. Una teoria dell’istruzione, viceversa, può cercare di stabilire i mezzi migliori per guidare il bambino al raggiungimento di tale nozione. Una teoria dell’istruzione, in breve, riguarda il modo con cui si apprende meglio ciò che si vuole insegnare, mira cioè a migliorare piuttosto che a descrivere l’apprendimento. Con ciò non si afferma che le teorie dell’apprendimento e dello sviluppo non rivestano alcuna importanza per una teoria dell’istruzione. In effetti una tale teoria deve riguardare sia l’apprendimento che lo sviluppo e deve essere coerente con quelle teorie dell’apprendimento e dello sviluppo alle quali essa aderisce.

Una teoria dell’istruzione ha quattro principali caratteristiche.

Innanzitutto, deve stabilire quali esperienze siano piú atte a generare nell’individuo una predisposizione ad apprendere, si tratti di apprendimento in generale o di un suo tipo particolare. Ad esempio: Quale tipo di relazioni con persone e cose nell’ambiente prescolastico tenderà a rendere il bambino disposto e capace di apprendere, allorché inizierà la scuola?

In secondo luogo, una teoria dell’istruzione deve specificare il modo in cui un insieme di cognizioni deve essere strutturato perché sia prontamente compreso dal discente. Una “struttura ottimale” si riferisce ad un insieme di proposizioni da cui può essere generato un piú vasto insieme di cognizioni: la formulazione di tale struttura dipende dallo stato di progresso di un particolare campo del conoscere [...].

L’efficacia di una struttura dipende dalla sua capacità di semplificare l’informazione, di generare nuove proposizioni e di rendere piú maneggevole un insieme di cognizioni. La struttura deve sempre riferirsi alla situazione ed alle doti del discente. Sotto questo aspetto, la struttura ottimale di un insieme di cognizioni non è assoluta ma relativa.

In terzo luogo, una teoria dell’istruzione deve specificare la progressione ottimale, con cui va presentato il materiale che deve essere appreso. Supposto, per esempio, che si desideri insegnare la struttura della fisica moderna come dovremo regolarci? Dovremo cominciare col presentare esperienze concrete in maniera tale da provocare domande sulla regolarità di certi fenomeni o piuttosto cominciare con dei simboli matematici che rendano piú facile la raffigurazione della regolarità dei fenomeni che si incontreranno successivamente? Quali risultati saranno in effetti raggiunti da ciascun metodo, e come descrivere la loro combinazione ideale?

Infine una teoria dell’istruzione dovrebbe specificare la natura e il ritmo delle ricompense e delle punizioni nel processo dell’apprendimento e dell’insegnamento. Intuitivamente appare chiaro che, man mano che l’apprendimento progredisce, esista un momento in cui è senz’altro consigliabile allontanare dalle ricompense estrinseche, quali ad esempio una lode dell’insegnante, passando a ricompense intrinseche, come quelle inerenti la soluzione di un complesso problema per conto proprio. Esiste poi un momento in cui, a un immediato riconoscimento per quanto è stato conseguito, dovrà essere sostituito un premio procrastinato. Quale sia il momento del passaggio dalla ricompensa estrinseca a quella intrinseca e da quella immediata a quella differita è ancora molto poco chiaro, ma tuttavia molto importante; nel caso in cui, per esempio l’apprendimento implichi l’integrazione di una lunga sequenza di azioni, meglio effettuare al piú presto tale passaggio dalla ricompensa immediata a quella differita e dall’estrinseca alla intrinseca?

Mi auguro che in questo collage riassunto tu trovi gli spunti che ti servono.Auguri

Ciao

2006-11-12 09:17:39 · answer #1 · answered by lupogrigio 7 · 0 0

La volontà di apprendere secondo Bruner

La più singolare caratteristica umana è l'attitudine ad apprendere. L'apprendere è cosi profondamente insito nell'uomo, da essere quasi involontario, ed alcuni studiosi del comportamento umano hanno perfino sostenuto che la peculiarità della nostra specie è una particolare attitudine ad apprendere […]

Perché dunque ricorrere all'idea di una «volontà di apprendere»? La risposta è insita nel concetto di educazione: una invenzione umana che conduce colui che apprende al di là del «puro» apprendimento. Le altre specie iniziano il loro apprendimento da zero ad ogni generazione, ma l'uomo nasce in una cultura le cui funzioni principali sono la conservazione e la trasmissione dell'apprendimento passato. In realtà, date le caratteristiche fisiche dell'uomo, sarebbe per per lui non solo rovinoso, ma probabilmente fatale, se dovesse inventare da capo anche quel minimo di tecniche e di conoscenze necessarie alla sopravvivenza della specie nella zona temperata. Questo significa che l'uomo non può dipendere da un processo casuale di apprendimento: egli deve essere «educato». Il giovane essere umano deve regolare il suo apprendimento e la sua attenzione in base ad esigenze esterne, tralasciando ciò che risplende di vivida luce innanzi ai suoi occhi, per interessarsi di qualcosa che è immerso nell’ombra di un futuro spesso incomprensibile. E deve fare ciò in uno strano ambiente, dove parole, diagrammi ed altre astrazioni diventano improvvisamente molto importanti. La scuola esige dal bambino ordine e diligenza in una misura che egli non aveva mai conosciuto precedentemente; esige un autocontrollo e addirittura un'immobilità fisica prima mai pretesi da lui, e spesso lo pone in una situazione in cui non sa se ha capito e talvolta per un certo tempo nessuno gli dice se si trova o meno sulla giusta via […].

Per effetto di tutto ciò, il problema della «volontà di apprendere» diventa estremamente importante. Non illudiamoci, è un problema che non può essere evitato, anche se, io credo, possa essere adeguatamente affrontato.

Dovremo studiare quali fattori rendano fonte di soddisfazione il processo di apprendimento «scolastico», rendano piacevole l'esercizio abituale dell'apprendimento, così come si attua nell'atmosfera necessariamente artificiale della scuola. Quasi tutti i ragazzi posseggono quelli che sono chiamati motivi «intrinseci» per apprendere. Un motivo è intrinseco quando non dipende da una ricompensa esterna all'attività che esso stimola. La ricompensa è inerente al felice compimento di quell'attività o anche all'attività stessa.

CONCLUSIONE

A rischio di ripetermi, desidero riesprimere con altre parole questo concetto. La volontà di apprendere è un motivo intrinseco, che trova la sua sorgente e la sua ricompensa nell'esercizio di sé. La volontà di apprendere diventa un <> soltanto in determinate circostanze, come quella di una scuola in cui si impone un programma, gli studenti sono privati di ogni iniziativa, la linea da seguire è rigidamente fissata. Il problema non esiste tanto nell'apprendimento in sé, ma nel fatto che i compiti imposti dalla scuola spesso non riescono a far leva su quelle energie naturali che stimolano l'apprendimento spontaneo: la curiosità, il desiderio della competenza, l'aspirazione ad emulare un modello, ed il consapevole impegno di inserirsi nel tessuto reciprocità sociale. […]. A questo punto il lettore avrà notato la scarsa importanza da me attribuita alle ricompense e alle punizioni « estrinseche » quali fattori dell'apprendimento scolastico.

2006-11-12 17:23:24 · answer #2 · answered by dottor hoffman 2 · 0 0

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