Il testo del discorso del papa:
BOLLETTINO N. 0445 - 12.09.2006 8
[01245-05.02] [Originalsprache: Deutsch]
" TRADUZIONE IN LINGUA ITALIANA
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla
cattedra dell'università e una volta ancora poter tenere una
lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli
anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di
Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico
all'università di Bonn. Era - nel 1959 - ancora il tempo della
vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre
non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era
un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i
professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze
dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e
naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto
stretti.
Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies
academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano
davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così
possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che noi,
nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono
incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel
tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così
insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della
ragione - questo fatto diventava esperienza viva. L'università,
senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era
chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della
fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto"
dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano
condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune
si impegnano i teologi.
Questa coesione interiore nel cosmo della
ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la
notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università
c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che
non esisteva - di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così
radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per
mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della
tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme
dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte
edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il
dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i
quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano
colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi
probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di
Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così
perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più
dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si
estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella
Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e
dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione
tra le "tre Leggi": Antico Testamento - Nuovo Testamento - Corano.
Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento - piuttosto
marginale nella struttura del dialogo - che, nel contesto del
tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto
di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio ( - controversia) edito dal prof.
Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa).
Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si
legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle sure
del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere
e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le
disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa
la guerra santa.
il passaggio incriminato:
______________________________________
Senza soffermarsi sui particolari, come la
differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e
gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge
al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul
rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo:
"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai
soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di
diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".
L'imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la
diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La
violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura
dell'anima. "Dio non si compiace del sangue; non agire secondo
ragione ( è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto
dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla
fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare
correttamente, non invece della violenza e della minaccia. Per
convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del
proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro
mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte.".
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la
conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è
contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta:
per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca,
quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece,
Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a
nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della
ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto
islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si
spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla
sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la
verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche
l'idolatria.
______________________________________
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione
concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto
diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in
contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o
vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si
manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso
migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia.
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha
iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era
il ". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore:
Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola - una
ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come
ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul
concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso
faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta,
trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è
Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il
pensiero greco non era un semplice caso.
La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie
dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua
supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) - questa
visione può essere interpretata come una "condensazione" della
necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e
l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo.
Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca
questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi
affermando soltanto il suo essere, è, nei confronti del mito, una
contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di
Socrate di vincere e superare il mito stesso.
Il processo iniziato
presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una
nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo
della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della
terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola
del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari
passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico
nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani
dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del
disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la
forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto
idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava
interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino
ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente
nella tarda letteratura sapienziale.
Oggi noi sappiamo che la
traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria -
la "Settanta" -, è più di una semplice (da valutare forse in modo
poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una
testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo
della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo
incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua
divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si
tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e
religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede
cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso
ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos"
è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo,
si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa
sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il
cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns
Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò
all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas
ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù
della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di
tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle
posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn
e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è
legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità
di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la
nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un
vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi
eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni
effettive.
In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre
attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno
Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera
analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più
grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire
l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più
divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un
volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è
quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce
pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore "sorpassa" la
conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice
pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-logos,
per cui il culto cristiano è - un culto che concorda
con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto
tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del
pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto
di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della
storia universale - un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato
questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante
la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia
infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa.
Possiamo esprimerlo anche inversamente: incontro, al quale si
aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato
l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può
chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una
parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della
dis-ellenizzazione del cristianesimo - una richiesta che dall'inizio
dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica.
Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma
della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia
nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente
distinte l'una dall'altra.
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati
fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la
tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di
fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente
dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede
dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da
essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma
come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il
sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede,
come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La
metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da
cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente
se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il
pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo
programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con
ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica,
negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda
onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante
eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come
nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era
fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di
partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei
filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia
prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo
argomento. Non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però
tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che
caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione rispetto
alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al
semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima
di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe
il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe
dato un addio al culto in favore della morale.
In definitiva, Egli
viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo
scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con
la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente
filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di
Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-
critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel
cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di
essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che
essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire,
espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile
nell'insieme dell'università.
Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa
in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però
ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali.
Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve,
su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il
successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la
struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità
intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua
efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire,
l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra
parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i
nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o
falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il
peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più
dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente
positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico o
cartesiano. Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi
per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante
dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di
scientificità.
Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi
con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose
umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia,
cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità.
Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto
che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire
come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci
troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione
che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener
presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di
conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica",
del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo
dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione.
Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli
del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione
e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune
ragione descritta dalla "scienza" e devono essere spostati
nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue
esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e
la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza
etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro
forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della
discrezionalità personale.
È questa una condizione pericolosa per
l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione
e della ragione - patologie che necessariamente devono scoppiare,
quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della
religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei
tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole
dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, semplicemente
insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo
ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della
dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione
dell'incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che
la sintesi con l'ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe
stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre
culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino
al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il
semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo
nei loro rispettivi ambienti.
Questa tesi non è semplicemente
sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento,
infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il
contatto con lo spirito greco - un contatto che era maturato nello
sviluppo precedente dell'Antico Testamento. Certamente ci sono
elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono
essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che,
appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della
ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede
stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione.
Questo tentativo, fatto solo a
grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non
include assolutamente l'opinione che ora si debba ritornare
indietro, a prima dell'illuminismo, rigettando le convinzioni
dell'età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è
valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le
grandiose possibilità che esso ha aperto all'uomo e per i progressi
nel campo umano che ci sono stati donati. L'ethos della
scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e
quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione
di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è
dunque l'intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro
concetto di ragione e dell'uso di essa. Perché con tutta la gioia di
fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che
emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo
dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in
un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della
ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad
essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia,
non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come
teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della
fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo
delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e
delle religioni - un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno.
Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la
ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano
universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono
proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della
ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione,
che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito
delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle
culture.
E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze
naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come
ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme
con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente
accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza
tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura
come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico.
Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve
essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del
pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in
modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e
convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente
quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza;
rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del
nostro ascoltare e rispondere.
Qui mi viene in mente una parola di
Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte
opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose
sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni
discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe
la verità dell'essere e subirebbe un grande danno". L'occidente, da
molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli
interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo
un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione,
non il rifiuto della sua grandezza - è questo il programma con cui
una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra
nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione (con il
logos) è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II,
partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore
persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione,
che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori.
Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito
dell'università.
2006-09-20 03:50:09
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answer #5
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answered by Mikè 3
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