sì esiste.
Anima
Paul O'Callaghan
Concilio I di Toledo, DH 190; Leone I, Quam laudabiliter, DH 285; Anastasio II, Bonum atque iucundum, DH 360; DH 403; Sinodo di Braga, DH 456; Concilio di Vienne, DH 902; Concilio Lateranense V, DH 1440; DH 2135; Gaudium et spes, 14; CDF, Alcune questioni di escatologia, 17.5.1979, EV 6, 1528-1549; CTI, Questioni attuali di escatologia, 16.11.1991, EV 13, 448-572; Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledì, 27.5.1998, Insegnamenti XXI,1 (1998), pp. 1050-1053.
I. Introduzione - II. L’anima umana e l’anima del mondo nelle religioni primitive - III. L’anima umana come sostanza individuale: Platone ed Aristotele - IV. L’anima umana nella Sacra Scrittura - V. L’anima nella teologia cristiana fino all’epoca medievale - VI. Soggettività ed anima umana nella filosofia moderna - VII. Il dibattito sull’anima nella scienza moderna: l’evoluzionismo ed il problema mente-corpo - VIII. L’anima umana fra teologia e scienza - IX. Osservazioni conclusive: l’anima umana, «azione» o «sostanza»?
I. Introduzione
Secondo Platone l’etimologia del termine greco psyché deriva dal verbo anapneîn, cioè «respirare», o anche anapsycho «refrigero», «faccio asciugare» (cfr. Cratilo, 399e). Aristotele ne trova la radice in katápsyxis, «raffreddamento» (cfr. De Anima, I, 2, 405b), un’interpretazione utilizzata incidentalmente anche da Origene quando descrive la primitiva caduta degli spiriti umani in termini di un «raffreddamento» di una realtà puramente spirituale (cfr. De Principiis, II, 8). Il vocabolo ebraico equivalente più vicino è nefes, collegato direttamente ai termini «respiro» e «gola». Il termine latino anima deriva invece dal greco anaigma, che vuol dire «esangue», o più facilmente da ánemos, cioè «vento», o anche «respiro». Le forme tedesca Seele e inglese soul provengono dal tedesco antico saiwolò, legato al vocabolo greco aiólos, cioè «agile», ma anche «semovente», che designa un principio intrinseco di moto. Infine, il termine sanscrito Atman, presente nella tradizione indiana dei Rig-Veda, significa anch’esso «respiro» e compare nel tedesco moderno come atmen, «respirare».
Il contenuto del termine «anima», nelle sue differenti forme ed espressioni, può rintracciarsi praticamente in ogni periodo storico, in ogni civiltà , in ogni antropologia filosofica ed anche in ogni religione (cfr. Eliade, 1993). Si tratta quindi di una categoria trasversale del pensiero e dell’esperienza umana di tutti i tempi. I filosofi, tuttavia, sono sempre stati consapevoli della difficoltà di parlare dell’anima in termini rigorosi. Tommaso d’Aquino, ad esempio, osserverà che «conoscere cosa sia l’anima è cosa assai difficile» (De Veritate, q. 10, a. 8, ad 8um), aggiungendo inoltre che tale conoscenza «richiede una ricerca diligente ed accurata» (Summa theologiae, I, q. 87, a. 1). Lungo la storia della filosofia è poi possibile trovare due comprensioni, diverse e opposte, dell’anima umana: la posizione per così dire «spiritualista» (Pitagora, Platone, Plotino, Agostino, Descartes, Leibniz, ecc.) e quella «materialista» (Epicuro, Lucrezio, Comte, Marx, Engels, ecc.). La prima vi associa una varietà di aspetti della vita e del comportamento umani (autocoscienza, auto-trascendenza, libertà , dialogicità , cultura, creatività , ecc.), e tende di solito verso un’antropologia dualista. La seconda posizione si sente maggiormente in sintonia con un discorso strettamente positivo ed empirico, e tende verso un’antropologia monista. Alcuni autori, fra cui Tommaso d’Aquino, hanno cercato in molti modi una sintesi fra i due approcci.
In ambito scientifico, un discorso sull’esistenza e sugli attributi dell’anima umana — come una sorta di elemento invisibile, immateriale ed unificante situato nel nucleo profondo dell’essere umano — è stato visto generalmente con un certo sospetto. Gli sviluppi della fisica, della chimica, della biochimica, della biologia e della psicologia sperimentale sono stati testimoni, quando non direttamente responsabili, di un progressivo declino nell’uso del termine, riservato al più per l’ambito simbolico o poetico. Nelle ultime decadi vi è stata però un’inversione di tendenza, specialmente da quando alcuni scienziati sono tornati a rendersi conto della significatività e dell’utilità di tale concetto nello studio del cosiddetto mind-body problem.
II. L’anima umana e l’anima del mondo nelle religioni primitive
Presso molti popoli primitivi si parla di «anima» principalmente in termini «cosmici», cioè all’interno del tentativo di comprendere l’unità dell’universo (cfr. Lévy-Bruhl, 1927; Rohde, 1961). Nonostante alcune interpretazioni di autori del XIX secolo, sembrerebbe però che presso i filosofi presocratici non fu così: la nozione di anima umana non venne introdotta tanto in relazione alla comprensione del cosmo, quanto piuttosto per descrivere il rapporto fra l’uomo e la divinità (cfr. Jöel, 1906; Marett, 1915). In altre parole, le primitive comprensioni dell’anima sono di tipo etico e religioso, piuttosto che cosmico o scientifico. I presocratici vedono l’anima in termini antropologici, mistici, intuitivi. La nozione di anima come «respiro» o «fuoco» è comune presso molti popoli e, in modo corrispondente, la morte viene associata con il «volo» o comunque con l’assenza di tale respiro. Filosofi greci della scuola naturalista come Diogene, Anassimandro e Anassimene, identificarono l’anima con l’aria o il respiro. Per Eraclito è fatta di fuoco. A loro volta Democrito, Epicuro e gli stoici la considerano composta di atomi raffinati; ed è mortale e corruttibile a livello individuale perché è solo un elemento del grande organismo vivo dell’universo. Nel linguaggio poetico di Omero, il termine thymós viene adoperato per indicare la sede tangibile di processi vitali, quali il pensiero, i sentimenti, le sensazioni, mentre il termine psyché è riservato a designare la vita in senso generale, come una sorta di energia vitale immateriale che uomini ed animali possiedono in modo impersonale, una vita cosmica riconoscibile nel respiro, nel sangue, sulla quale però gli esseri umani non hanno potere. Col passare del tempo, la psyché, di natura inconscia, finirà con l’assumere ed inglobare i caratteri consci del thymós, in particolare la coscienza e l’individualità spirituale. La fusione fra i caratteri del «respiro» e della «coscienza», portata a compimento con l’orfismo, favorirà poi l’idea della «trasmigrazione delle anime», quale espressione della sopravvivenza, indipendenza rispetto al corpo, ed immortalità dell’anima umana.
Nel pitagorismo le anime individuali sono espressione di un’anima cosmica comune, legata alla concezione di un’origine unitaria del mondo, una tradizione ripresa da Platone, che considererà l’anima cosmica — di natura invisibile rispetto al corpo del mondo che è invece visibile — come «la più perfetta delle realtà che sono state generate» (Timeo, 37a). Ha qui origine la dottrina dell’«emanazionismo», cioè l’origine delle anime a partire della divinità . Con Plotino, l’Uno dà origine all’Intelligenza (noûs), che a sua volta genera l’anima cosmica (psyché), che sarà poi presente in tutte le cose attraverso «ragioni seminali». Notiamo incidentalmente che la nozione di «anima cosmica», così come le dottrine dell’emanazionismo e del panteismo ad essa collegate, sorgerà occasionalmente anche in un contesto cristiano, ad esempio nel medioevo con Teodoro di Chartres e Guglielmo di Conches (che ne proporranno un’identificazione con lo Spirito Santo), poi con Giordano Bruno e, più tardi, con Schelling. à tuttavia chiaro che la dottrina giudeo-cristiana della creazione ex nihilo e della creazione individuale dell’anima umana giungono ad una spiegazione alquanto diversa dell’origine, della natura e del destino dell’anima umana. In ogni caso, la descrizione dell’anima umana come emanazione di un’anima cosmica porta con sé due conseguenze: in primo luogo, essa non riesce ad esprimere la dignità dell’essere umano nella sua individualità , in quanto sempre subordinato al cosmo unitario; inoltre, nel proporsi di spiegare l’unità razionale e il dinamismo del cosmo utilizzando un’epistemologia vitalista, intuitiva o perfino mitologica, ha bisogno di una più seria verifica di carattere razionale e scientifico. Platone ed Aristotele furono tra i primi a contribuire decisamente a tale processo di chiarificazione.
III. L’anima umana come sostanza individuale: Platone ed Aristotele
Considerata da un punto di vista descrittivo, la riflessione dei popoli primitivi sull’anima è, come abbiamo visto, di carattere cosmologico. Ciononostante, essa è motivata da una visione religiosa del mondo, che coinvolge l’immortalità dell’uomo e la sua responsabilità etica. Questi elementi saranno fondamentali per il consolidamento della nozione di «sostanzialità » dell’anima umana, una delle principali eredità dell’età dell’oro della filosofia greca. Tale consolidamento ebbe luogo secondo due direzioni principali. Lungo la prima, in un contesto principalmente etico-religioso, Platone sviluppò un’antropologia del composto umano di anima e corpo, di carattere decisamente «dualista»; lungo la seconda, in un contesto razionale, empirico e metafisico, Aristotele sviluppò una comprensione dell’uomo che comportasse «l’unità sostanziale» fra corpo e anima.
1. La comprensione platonica dell’anima umana. Platone (427-347 a.C.) riceve le nozioni di purificazione e di salvezza dell’anima dalle dottrine dell’orfismo, attraverso il pitagorismo. Per lui le anime hanno un’origine celeste; sono delle particelle staccatesi da uno «Spirito» infinito (pneûma), che, entrando nei corpi, dà loro la vita. Data la loro origine celeste e spirituale, dopo una vita retta nella quale viene raggiunta una completa purificazione, le anime saranno finalmente reintegrate nella loro primitiva origine spirituale. Se così non fosse, esse sarebbero destinate ad una serie di reincarnazioni successive, anche nei corpi di animali o di piante, fino a quando e non avranno realizzato una completa purificazione. Corpo ed anima sono viste in maniera antagonista: la seconda “entra” nel primo come risultato di una caduta primitiva o, anche, di un peccato (cfr. Fedro, 248ss; Repubblica, VII, 514ss).
Platone attribuisce quattro proprietà principali all’anima umana. a) Essa è un «principio di vita»: mentre qualunque cosa mossa dall’esterno non ha anima, la possiede invece chi si muove da se stesso e per se stesso. In tal senso, secondo lui, posseggono delle anime anche il sole, la terra, le stelle (cfr. Leggi, 898d). b) L’anima è immateriale: le è proprio il pensiero e, attraverso di esso, essa comunica con il mondo intelligibile delle idee. Platone rifiuta la comprensione di Pitagora (570-490 a.C.) secondo cui l’anima non sarebbe altro che l’armonia (krásis) tra gli elementi (Fedone 93b). Inoltre, l’anima umana è composta di tre parti: razionale (destinata alle attività superiori), irascibile (sede dei sentimenti nobili) e concupiscibile (sede degli appetiti inferiori). c) Mentre le anime irascibile ed concupiscibile sono mortali, l’anima razionale è immortale ed eterna: «fra tutte le cose che l’uomo possiede, essa è quella più vicina agli dèi, e le sue proprietà sono le più divine e vere» (Leggi, 726a). Platone segnalerà varie ragioni a sostegno dell’immortalità dell’anima, come la natura ciclica della vita, la reminiscenza di cose conosciute in vite precedenti, la sua affinità alle cose spirituali, l’incorruttibilità rispetto al corpo (cfr. Fedone, 70-80; Repubblica, 608-611). d) L’anima «precede» il corpo, al quale è unita in modo accidentale, in certo modo innaturale, come il fantino che guida il cavallo o il timoniere che guida la nave (cfr. Fedone, 246a, 247c). Il corpo quindi non è pienamente umano: l’uomo è la sua anima, egli è un’anima che usa un corpo (cfr. Alcibiade maggiore, I, 130a-131a).
Le idee di Platone sono state riprese frequentemente nel corso della storia del pensiero, primi fra tutti dai grandi neoplatonici, Plotino (205-270) e Porfirio (233-305). La grande influenza delle idee di Platone lungo tutti i secoli successivi fu dovuta a vari fattori. Innanzitutto, la sua visione era in sintonia con molte filosofie etiche e religiose dell’Oriente (cfr. Eliade, 1986) ed aveva inoltre il merito di offrire una prima descrizione dell’anima, intuitiva e pre-critica, sebbene con l’appoggio di alcune basi metafisiche. Poi, da un punto di vista etico e religioso, la dottrina platonica offriva certamente una visione attraente circa l’origine e la natura dell’anima, ma portava con sé delle conseguenze difficili da superare, principalmente derivanti dall’intrinseco dualismo e dalla scarsa attenzione tributata alla corporeità umana. Sebbene Platone difenda l’immortalità e la dignità dell’essere umano, la sua concezione dell’anima rende problematici i rapporti dell’individuo con gli altri esseri umani e con il cosmo. Nella sua comprensione di cosa sia l’anima, in coerenza col suo pensiero, Platone dà poco peso ai dati empirici, appartenenti al versante corruttibile e materiale della realtà , e legati all’attività corporea; si comprende quindi che le scienze esatte svolgono un ruolo alquanto pregiudiziale per il filosofo (cfr. Fedone, 65-67).
2. La comprensione dell’anima umana nel pensiero di Aristotele. Dopo una fase iniziale più vicina alla visione platonica dualista, seguita da una probabile fase di “vitalismo strumentalista”, nella quale si sostiene un accostamento accidentale ma non conflittuale fra anima e corpo, Aristotele (384-322 a.C.) approda, anche grazie alle sue osservazioni scientifiche, alla consapevolezza dell’unità psicosomatica dell’essere umano, principalmente rintracciabile nei tre libri della sua opera De Anima. In questo scritto, che Hegel qualificherà assai più tardi come il lavoro migliore e maggiormente speculativo su tale oggetto, Aristotele parlerà senza esitazioni dell’unione sostanziale fra corpo e anima e dell’anima come «forma sostanziale» del corpo, elaborando la teoria denominata come «ilemorfica».
Afferma Aristotele che «l’anima è ciò per cui in primo luogo viviamo, sentiamo, ragioniamo: di conseguenza deve essere nozione e forma, non materia e sostrato», per aggiungere poco più avanti che «né l’anima esiste senza il corpo, né essa è un corpo. Corpo certo non è, ma è qualcosa del corpo» (cfr. De Anima, II, 2, 414a). Essa è il primo principio degli esseri viventi corporali, la sorgente della vita del corpo, ma è distinta dalla materia. L’anima è «l’entelécheia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza» (De Anima, II, 1, 412a). Si tratta dunque di un principio entitativo ed operativo. Secondo lo Stagirita vi sono tre tipi di anima: l’«anima vegetativa», principio delle azioni nutritive, della crescita e della riproduzione; l’«anima sensitiva», origine della conoscenza sensibile e degli appetiti, ed infine l’«anima razionale», principio della conoscenza razionale. Non è corretto, per Aristotele, affermare che l’anima “vive”, bensì occorrerebbe dire che “l’intero essere umano vive in virtù dell’anima” (cfr. Metafisica, VII, 11, 1037a).
Riguardo la spiritualità e l’immortalità dell’anima, Aristotele sostiene che nell’essere umano vi sono delle operazioni intellettuali che soltanto una sostanza separata dal corpo (noûs, in opposizione a sôma), e dunque incorruttibile, sarebbe in grado di realizzare (cfr. De Anima, III, 4, 429ab). Tuttavia, le «forme» naturali non sono sostanze separate, e periscono quando il composto di forma e materia si dissolve. Cosa accade dunque quando muoiono gli esseri umani? Sulla base degli scritti di Aristotele non è perfettamente chiaro se il cosiddetto «intelletto agente» (che nell’opera De generatione animalium, 736b, dichiarerà essere di origine divina, qualcosa di separato ed impassibile), sia presente ed attivo quale situazione od attualità compiuta e finale (entelécheia), individuale ed immortale, in ogni essere umano (cfr. Reyna, 1972).
La dottrina aristotelica, insistendo sull’unità sostanziale dell’essere umano, si sforza senza dubbio di rispettare i dati empirici, che suffragano maggiormente tale unità . Non spiega però facilmente come gli esseri umani “individuali” possano acquistare quell’immortalità pure riconosciuta all’anima, né dà ragione della autocoscienza umana. Sebbene in alcuni scritti giovanili, in certa dipendenza da Platone, Aristotele tocca temi aventi a che fare con questioni di carattere escatologico, egli parlerà assai poco dell’uomo dopo la morte nei lavori successivi. à comprensibile pensare all’influsso di Aristotele sui materialismi monisti o atei, di ispirazione scientifica, comunemente inclini a porre in questione il tema dell’immortalità dell’uomo (cfr. Reale, Storia della filosofia antica, Milano 19888, vol. II, pp. 476ss). Aveva dunque ragione Socrate quando sosteneva che la scienza era incompatibile con la religione, ed i dati empirici con l’amore per la saggezza? (cfr. Fedone, 65-67).
Dall’esame del pensiero di Platone ed Aristotele risulta chiaro che la comprensione di cosa sia l’anima risulta condizionata dalla comprensione di cosa sia il corpo, e viceversa. Un punto nevralgico si trova senza dubbio nella questione della mortalità dell’essere umano e del suo destino d’oltretomba. Per Platone, la cui etica religiosa spinge l’uomo interamente verso l’immortalità , la morte è considerata una liberazione, il riscatto dell’anima dal peso morto della materia. Per Aristotele, la cui metafisica, collegata all’ambito empirico, lega l’uomo al mondo sensibile e materiale, la morte sembrerebbe implicare la distruzione della natura e la perdita dell’individualità umana, sebbene egli non rigetti la possibilità , in chiave escatologica, di un’anima immortale (cfr. Metafisica, XII, 3, 1070a). Sarà precisamente all’interno della questione sulla morte e sull’immortalità che la rivelazione giudeo-cristiana consegnerà il suo più importante contributo all’antropologia ed alla nostra comprensione di cosa sia l’anima umana ( MORTE, II).
IV. L’anima umana nella Sacra Scrittura
1. Terminologia. Nel parlare dell’essere umano, la Sacra Scrittura utilizza tre termini aramaici fra loro intimamente collegati: basâr, cioè «carne» (gr. sárx, nella traduzione dei LXX), nefes, equivalente ad «anima» (gr. psyché) ed infine rûah, «spirito» (gr. pneûma). I tre termini indicano «l’intero essere umano», sebbene con sfumature diverse: basâr ne sottolinea la debolezza, la caducità e la dipendenza, nefes la vitalità individuale e rûah, che indica anche lo spirito in quanto anima, punta verso la sorgente divina di ogni vivente. Dunque l’essere umano “è” basâr e nefes, e “riceve” rûah. Il vocabolo nefes, termine biblico più vicino a ciò che chiamiamo anima, compare circa 750 volte nell’AT, generalmente riferito ad un essere «che respira» (cfr. Es 23,12 e 31,17; 2Sam 16,14), possedendo un etimo vicino a quello dei termini «gola», «bocca» e «respiro» (cfr. Lys, 1959). Similmente, il termine nefes è associato al «sangue» (cfr. Lv 17,11; Dt 12,23): la respirazione ed il sangue sono infatti entrambi segni tangibili della vita. Sempre nell’AT, nefes designa sia la vita sia l’uomo, e viene utilizzato circa 70 volte in riferimento all’essere umano individuale, alla persona. L’uomo diventa un vivente nefes al ricevere il «respiro di vita» da Dio: «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita (nismat) e l’uomo divenne un essere vivente (nefes)» (Gen 2,7). Nel Targumin lo stesso testo viene tradotto così: «e l’uomo divenne un essere parlante». Nefes è dunque associato ad una varietà di manifestazioni della vita umana, specie di natura interiore, quali passioni, affetti, desideri, fino a divenire quasi un equivalente della «interiorità » dell’essere umano, la sede dei sui affetti: del pensiero e della conoscenza (cfr. Es 23,9; Gb 16,4; Pr 12,10), della gioia (cfr. Sal 86,4), del timore (cfr. Sal 6,4), della pietà (cfr. Sal 104,1.35; 143,8), della confidenza (cfr. Sal 57,2) e della memoria (cfr. Dt 4,9). L’AT parla ugualmente dei «morti» (repa’îm), sempre in plurale, come qualcosa di diverso dal cadavere, i quali sussistono in uno stato letargico, deficiente ed inattivo.
Il termine «anima» o «spirito» verrà utilizzato nel NT secondo una varietà di accezioni. La psyché conserva la notazione di vita psichica riferita all’anima o all’individuo (cfr. Lc 2,35; At 2,43 e 15,24; Rm 2,9; 2Pt 2,8), anche sulla bocca di Gesù (cfr. Mc 14,34). Nel Vangelo di Matteo, Gesù parla esplicitamente della possibilità di «uccidere l’anima» (Mt 10,28; cfr. Gc 5,20). In prossimità della passione, l’anima (psyché) di Gesù «è triste fino alla morte» (Mc 14,34). Compare anche lo spirito (pneûma), anch’esso riferito all’interiorità personale (cfr. Mt 5,3; At, 17,16; 1Cor 2,11; 2Cor 2,13; Eb 12,23), sebbene in una serie di passi, la maggior parte dei quali si trova nel corpo paolino, indichi principalmente lo spirito umano «in riferimento allo Spirito divino» (cfr. Rm 1,9 e 8,10.16; 1Cor 6,17; 2Cor 12,18; Gal 6,18; ma anche Lc 1,80; At 18,25). à chiaro comunque che pneûma non coincide con psyché, allo stesso modo che rûah non coincide con nefes (cfr. 1Ts 5,23; Eb 4,12). Sulla croce, al momento della sua morte, Gesù «consegnerà il suo spirito (pneûma)» (Gv 19,30).
2. Ad immagine e somiglianza di Dio. Va notato, in chiave riassuntiva, che l’utilizzo dei termini biblici veterotestamentari basâr, nefes e rûah, equivalenti ebraici dei concetti di «carne», «anima» e «spirito», è in fondo comune a quello praticato in altre tradizioni religiose e filosofiche extrabibliche dello stesso periodo (cfr. Wolff, 1975). Non si tratta, in sostanza, di termini capaci di identificare in modo chiaro e distintivo una compiuta e determinata antropologia biblica, cioè una comprensione biblica di cosa sia l’anima umana. I termini biblici più pregnanti non sono infatti quelli che descrivono la natura umana in se stessa, bensì quelli di “valenza interpersonale”, capaci di identificare le relazioni fra l’uomo e Dio. Teologicamente parlando, i termini più importanti in proposito sono quelli di creazione, alleanza, salvezza, ecc., ed in campo antropologico meriterebbe anche attenzione quello di «cuore» (eb. lêb). La specificità discriminante dell’antropologia biblica non va cercata tanto nei termini ordinari utilizzati per indicare gli esseri umani, la loro vita o le loro azioni, quanto piuttosto nel radicale e speciale statuto dell’essere umano quale creatura «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,26), cioè come “persona” (cfr. O’Callaghan, 1999). Qui giace il nocciolo dell’antropologia biblica, incluse le sue conseguenze sulla comprensione dell’anima, della sua individualità e della sua immortalità .
Molti Padri della Chiesa, fra i quali Clemente di Alessandria, Origene ed Atanasio, considerarono sede di tale «immagine e somiglianza» specialmente l’intelletto e la volontà , in continuità con alcune fondamentali intuizioni dei neoplatonici e degli stoici (cfr. Grossi, 1983; Hamman, 1991). Questa posizione fu poi seguita, in termini generali, da molti altri autori, fra i quali Agostino e Tommaso d’Aquino. Sarebbe tuttavia un errore associare la nozione di «immagine e somiglianza di Dio» nell’uomo esclusivamente all’anima come se essa fosse qualcosa di indipendente dal corpo. Sarebbe più corretto dire che, una volta riferita tale nozione a tutto l’essere umano, si comprende allora meglio il ruolo, la natura e la finalità dell’anima, piuttosto che viceversa. Nonostante nelle Scritture l’espressione «immagine di Dio», riferita all’uomo, non sia specialmente frequente (compare in Gen 1,26-27 e 9,6; Sap 2,23), l’antropologia cristiana gli ha sempre accordato un grande valore, e ciò principalmente per il fatto che Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto carne, morto e risorto dai morti, viene presentato dal NT come «immagine perfetta del Padre» (cfr. 2Cor 4,4; Col 1,15; Eb 1,3 e 2,6-9). Una lettura cristologica della «teologia dell’immagine» viene confermata da Padri della Chiesa quali Clemente di Alessandria, Ireneo, Tertulliano, Atanasio ed altri ancora: l’antropologia fondata sull’uomo considerato immagine di Dio diventa, dunque, una sorta di “cristologia implicita”.
Sempre riguardo l’espressione «immagine e somiglianza di Dio» vanno fatte qui quattro osservazioni. a) Nell’AT essa viene utilizzata per indicare il ruolo dell’uomo come signore della creazione o rappresentante di Dio in essa. L’uomo non è mai visto come elemento integrante di una sorta di “anima cosmica”. La superiorità dell’uomo sulla terra, sul mare, sugli animali, è proclamata da una speciale chiamata divina ad esercitare questo dominio-custodia sul resto della creazione. b) L’essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio si manifesta anche nel carattere sociale dell’essere umano: «a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gen 1,27); l’anima umana quindi non trova il suo appagamento nella solitudine e nella nuda contemplazione di stampo platonico, bensì nella comunione con gli altri, e fondamentalmente nella comunione con Dio. c) Vi è associata in modo talvolta implicito (cfr. Gen 9,6-7), altre volte esplicito (cfr. Sap 2,23) una promessa di immortalità . d) Tutte queste caratteristiche dell’essere umano si manifestano come qualcosa di dinamico, destinato a giungere a maturazione, sulla base di quanto ricevuto dal potere creatore e vivificante di Dio, senza che per questo l’uomo venga mai confuso, sul piano ontologico, con Dio: egli non è “nella” Sua immagine, ma “fatto” a Sua immagine e destinato alla comunione “con” Lui.
Segnaliamo infine che, per quanto attiene al rapporto fra anima ed immortalità , esso può essere compreso solo alla luce della dottrina biblica sull’origine e la natura della morte (cfr. Pozo, 1986), che coinvolge a sua volta la presenza del peccato e delle sue conseguenze. Basti qui ricordare che la morte non pare appartenere al piano originario di Dio sulla creatura umana, ma entra nel mondo e nella storia a causa del peccato dell’uomo (cfr. Gen 3,17-19; Sap 1,13-14; Rm 5,21 e 6,23), e che essa verrà totalmente eliminata dalla scena del mondo nella resurrezione finale (cfr. 1Cor 15,54-55), promessa nell’AT e resa definitivamente presente in Cristo risorto ( RESURREZIONE, III).
V. L’anima nella teologia cristiana fino all’epoca medievale
1. L’epoca patristica. Durante i primi secoli il cristianesimo ha dedicato maggiore attenzione all’etica ed alla religione rispetto a quanto abbia fatto nei confronti delle scienze. Ciò è manifesto nella generalizzata accettazione delle categorie antropologiche platoniche, che prevedevano una netta distinzione fra corpo e anima, fra materia e spirito. Il platonismo fu inizialmente considerato in maggiore sintonia con la rivelazione e la riflessione cristiana di quanto non lo fosse l’aristotelismo, poiché il primo si concentrava sulla contemplazione e sull’ascetismo, sulla ricompensa eterna per coloro che sono fedeli a Dio, anche se inglobando una certa visione pessimista nei confronti di un mondo materiale e mortale bisognoso di salvezza. Sarebbe però un errore considerare il cristianesimo primitivo sotto la luce del dualismo, e ciò a motivo di precise ragioni teologiche. Il dualismo corpo-anima, nelle sue varietà platonizzanti oppure gnostiche, parlava spesso di una duplice origine del mondo a partire di due princìpi coeterni, spirituale e materiale, cosa impensabile per lo stretto monoteismo ebraico-cristiano. Il dualismo corpo-anima tendeva ad identificare la materia con il nulla (Plotino) o con il male (manicheismo, priscilliani), in chiaro contrasto con la fede in un solo Dio e nella sua libera e amorevole creazione di tutte le cose dal nulla. La dottrina della resurrezione della carne, come promessa dell’estensione a tutti, alla fine dei tempi, della resurrezione di Cristo, risolveva poi ogni visione conflittuale fra corpo ed anima. à dunque comprensibile che gli autori cristiani abbiano sostenuto fin dall’inizio la fondamentale unità dell’essere umano. Aperti difensori di questa dottrina furono i dottori della scuola di Antiochia, ove si insisteva sulla formazione degli esseri umani dalla polvere della terra, sottolineandone nondimeno l’unità , e quella della scuola di Alessandria, che enfatizzava maggiormente il ruolo dell’anima come elemento configuratore del composto umano. I loro argomenti, con le loro rispettive sfumature, ricorreranno in tutta l’età media, fino al Concilio di Vienne (1312) (cfr. Ruiz de la Peña, 1988).
Fra i Padri della Chiesa, Giustino (II sec.), chiedendosi se l’uomo dovesse identificarsi con il suo corpo o con la sua anima, rispondeva che l’uomo è «un animale razionale, il risultato della composizione di entrambi» (cfr. De resurrectione, 8). Atenagora (II sec.) chiarì che l’uomo è formato di un’anima immortale e un corpo adattato ad essa al momento della creazione; Dio non ha destinato la creazione e la vita all’anima sola, o come se fosse separata dal corpo (cfr. De resurrectione, 15). Ireneo di Lione (135-202 ca.), in polemica con gli gnostici, ebbe a ribadire la bontà originaria della materia e della carne, offrendo una lettura fortemente cristologica della teologia dell’immagine di Dio (cfr. Adversus haereses, V, 28; Epideixis, 16). Tertulliano (160-215 ca.), in linea con Ireneo, spinse il «materialismo cristiano» fino a considerare la dimensione corporale come il cardine della salvezza (caro cardo salutis: cfr. De carnis resurrectione, 8). Per questi autori, l’uomo è “composto” di corpo ed anima, ma non si può dire che l’uno venga prima dell’altra. Saranno invece altri Padri, Clemente di Alessandria, Origene e Gregorio di Nissa in oriente, Lattanzio ed Agostino in occidente, ad attribuire una “netta priorità ” all’anima per spiegare l’origine e la dignità dell’essere umano di fronte alla caducità della materia. Essi non negano l’unità dell’uomo, ma la natura umana è per loro definita in termini della specificità della sua anima individuale. Si distaccherà dalla tradizione teologica la posizione di Origene (185-253 ca.), con una visione della natura dell’anima assai vicina a quella del platonismo classico, senza però giungere mai ad associare il male direttamente con la corporeità .
Sebbene la sua produzione teologica fu in gran parte anti-manichea, Agostino (354-430) mantenne una certa dipendenza dalla visione platonica: «la parte migliore dell’uomo è la sua anima», dice, «il corpo non è tutto l’uomo, ma la parte inferiore dell’uomo» (De civitate Dei, XIII, 24). Agostino rigetta la dottrina platonica della preesistenza delle anime e della loro precedenza temporale rispetto al corpo. Riguardo l’origine dell’anima, il vescovo di Ippona rifiuta sia l’emanazionismo plotiniano, sia la dottrina origeniana circa la creazione simultanea di tutte le anime all’inizio del tempo. La teologia del peccato originale inclinerà Agostino verso il «traducianesimo», secondo cui le anime dei figli avrebbero origine dall’anima dei loro genitori, ma resterà indeciso fra questa posizione e quella di un “creazionismo individuale” per l’anima, che diventerà col tempo la dottrina comunemente accettata dai cristiani. Si tratta di esitazioni terminologiche inevitabilmente intrecciate ad aspetti di ordine teologico. Ma in Agostino è chiara la necessità di mantenere unito il composto di anima e corpo: egli non accetta di poter dire che l’uomo consista di intelletto (mens) e che il corpo non sia anch’esso tanto uomo quanto quello (cfr. Sermones, CLIV, 10, 15). Esiste tuttavia una certa priorità gerarchica o dinamica dell’anima sul corpo: l’anima è una sostanza razionale che “governa” il corpo o, anche, l’uomo è un’anima razionale che utilizza un corpo terreno e mortale; l’esperienza sensibile non è propria del corpo, ma dell’anima attraverso il corpo (cfr. De Genesi ad litteram, III, 7).
Durante il periodo patristico, gli interventi del Magistero della Chiesa in campo antropologico ebbero come principali finalità condannare gli errori dei manichei e degli gnostici, stabilire la comune origine divina del corpo e dell’anima, presentare la natura umana nel contesto del piano divino sulla creazione. Viene così chiarito che l’anima non è una parte di Dio né una emanazione della divinità (cfr. DH 190, 201, 285, 455, 685), ma è creata da Dio immediate, cioè in modo diretto e senza intermediari (cfr. DH 190 e 360; insegnamento ripreso in epoca contemporanea dalla Humani generis, DH 3896), ed ex nihilo, da nulla di preesistente (cfr. DH 190, 360, 685). Le anime non preesistono ab aeterno, come sostenuto da Origene, né vengono rinchiuse nel corpo come punizione dovuta al peccato (cfr. DH 403, 456). La Chiesa professa similmente la bontà originaria della materia, del corpo e del mondo, quali creature di Dio, condannando gli errori degli gnostici e le loro dottrine circa la perversità del matrimonio o della procreazione, come ribadito in diverse occasioni dal Sinodo di Braga (561), dal Concilio Lateranense IV (1215) e da quello di Firenze (1442) (cfr. DH 457-463; DH 802; DH 1333, 1336). L’unità del corpo e dell’anima verrà espressa dal magistero ecclesiastico in tre modi: in termini dell’unicità dell’atto creativo di Dio, «Creatore di tutte le cose, visibili e invisibili» (Simbolo Nicea-Costantinopoli, DH 150); sulla base della resurrezione finale, che avverrà nella «medesima carne» (DH 72; 76; 325; 540; 574; 684; 801); ed infine sulla base dell’analogia con l’«unione ipostatica», che unisce, nella persona del Verbo, la natura divina e quella umana da Egli assunta: «come un solo uomo è anima intelligente e carne, così l’unico Cristo è Dio e uomo» (DH 76).
2. Il dibattito sull’anima nell’epoca medievale ed il contributo di Tommaso d’Aquino. Durante il periodo patristico, l’antropologia cristiana si imposta in modo essenzialmente cristologico, sebbene resti in buona parte concettualmente e terminologicamente platonica. Nell’epoca medievale, invece, acquistano rilievo speciale l’escatologia e l’approccio aristotelico. La domanda che il medioevo si pone riguarda le implicazioni antropologiche della salvezza escatologica conquistata da Cristo: come può parte del composto umano sopravvivere alla morte? e come viene salvato il corpo?
Nel primo medioevo, con Bonaventura (1217-1274) ed Ugo di s. Vittore (1096-1141), l’approccio è ancora di stampo platonico. L’immagine e la somiglianza di Dio, così come l’immortalità umana, appartengono in primo luogo all’anima: il corpo, che apparterrebbe per natura al mondo animale, partecipa dell’immortalità dell’anima come beneficium creationis. Corpo ed anima sono sostanze complete, unite in modo accidentale; l’anima si trova in una migliore condizione quando è separata dal corpo. L’anima separata quindi può considerarsi “persona” a giusto diritto: l’importanza teologica della resurrezione finale verrà , di conseguenza, sottostimata. La virata decisiva giungerà con l’introduzione del pensiero di Aristotele, attraverso la mediazione dei suoi commentatori arabi, Averroè, Avicenna e Maimonide, la cui influenza si farà sentire attraverso tutto il 1200. Prima con Gilberto Porretano (1080-1154) e poi con Guglielmo d’Alvernia (1180-1249) si ritorna a pensare in termini più unitari, seguendo l’espressione aristotelica dell’anima come «forma del corpo»: la funzione “informatrice” dell’anima è essenziale sia alla propria natura, sia al corpo che essa costituisce come umano. L’anima quindi non può essere considerata come persona a pieno titolo, perché in essa non si esprime la perfezione umana; l’anima sopravvive dopo la morte in uno stato che non gli è del tutto naturale, in attesa di ricongiungersi con il corpo nella resurrezione finale. La tensione apparentemente insuperabile fra la dottrina aristotelica dell’unione sostanziale fra corpo e anima e la visione platonica dell’immortalità dell’anima nella sua indipendenza metafisica dal corpo (cfr. Dales, 1995), troverà un decisivo chiarimento, se non un soluzione definitiva, ad opera di Tommaso d’Aquino (1225-1274) (cfr. Bertola, 1973; Moreau, 1976; Lobato, 1987; Pegis 1974 e 1976).
Occorre notare che s. Tommaso cercò di superare la tensione fra le tendenze platonica ed aristotelica anche in base a ragioni puramente teologiche (cfr. Summa theologiae, I, q. 75; all’anima umana, o a temi in relazione con essa, verranno dedicate, nella pars I, le qq. 75-90). L’anima è forma del corpo, egli sostiene, a motivo del particolare tipo di “sostanza” che essa è (osserviamo che il termine «sostanza», come per gli autori precedenti a Tommaso, va qui compreso nella sua accezione filosofica, come qualcosa che esiste di per sé). Non si tratta di un puro spirito ( ANGELI), né di una sostanza separata, bensì di una sostanza intellettuale che “informa” e “configura” il corpo (si tratta di una variante della teoria ilemorfica). La novità sta nel fatto che mentre Aristotele considerava le sostanze non divine come composte, generalmente parlando, di materia e di forma, l’Aquinate considera ogni sostanza come composta di «essenza» ed «atto di essere». Sia Aristotele che Tommaso convergono sul fatto che in ogni creatura vi è una composizione di potenza e di atto, ma secondo Tommaso l’atto non corrisponde necessariamente, in ogni caso, ad un particolare tipo di forma sostanziale, né la potenza necessariamente alla materia. L’anima è sì una sostanza, ma è composta non di forma e materia, ma di una essenza (quella cioè di essere una forma spirituale) e di un atto di essere che gli proviene direttamente dall’atto creativo di Dio. Ciò fornisce all’essere umano una piena individualità metafisica od incomunicabilità (cfr. Contra Gentiles, II, c. 75), un insegnamento, questo, sul quale Tommaso insistette contro quei commentatori di Aristotele, come Averroè, che in qualche modo tentarono di “platonizzarlo” (cfr. Fabro, 1955, p. 269). Inoltre, poiché l’anima non include alcuna materialità nella propria struttura, essa è semplice ed incorruttibile. «Il corpo non è unito in modo accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi» (Quaestio disputata de anima, a. 1, ad 1um). In termini filosofici, si può dire che l’anima comunica l’essere al corpo a livello di casualità formale, non di causalità efficiente.
La domanda incontrata da Tommaso era però la seguente: può una sostanza incorruttibile essere la forma di un corpo corruttibile e costituire con esso un unico essere sostanziale? (cfr. Contra Gentiles, II, c. 56). La sua risposta sarà affermativa, perché la precisa finalità dell’anima è quella di comunicare al corpo l’essere grazie al quale essa sussiste (cfr. ibidem, cc. 68-72). Va inoltre osservato quanto segue. a) L’anima è forma del corpo non per mezzo delle proprie potenzialità e virtualità , come riteneva Avicenna, ma a motivo della propria essenza; è proprio dell’anima, pur sussistente, informare il corpo ed essa trova in ciò la propria perfezione: «appartiene all’anima umana unirsi al corpo» (Summa theologiae, I, q. 51, a. 1). b) L’anima umana è l’unica forma del corpo, essendo al tempo vegetativa, sensitiva e razionale: con un unico atto di essere, l’anima è forma del corpo per tutte le sue funzioni e, dunque, non vi sono degli “intermediari” fra l’anima e il corpo; il fatto che un essere umano non eserciti tutte le sue facoltà significa solo che queste si rapportano agli atti propri potenzialmente, diversamente da Dio, nel quale la potenza di agire e l’agire stesso si identificano. c) L’anima non è cronologicamente anteriore al corpo ma ha priorità metafisica rispetto a questo, poiché l’anima è una forma il cui essere è indipendente dal corpo. Per questo Tommaso può parlare dell’«incorruttibilità » dell’anima (riservando il termine «immortalità » all’essere umano in quanto partecipe della vita della grazia divina). Egli dimostra l’incorruttibilità dell’anima in maniera più aristotelica che platonica: siccome l’anima può conoscere tutte le cose materiali, dice, essa deve essere immateriale e quindi incorruttibile (Summa theologiae, I, q. 75, a. 6) (cfr. Foster, 1993). d) L’anima separata non è né uomo, né persona: dopo la morte essa mantiene una certa «tensione» (commensuratio) verso il proprio corpo, cosicché essa è più perfetta e somigliante a Dio con il corpo che senza (De Potentia, q. 5, a. 10, ad 5um).
Si può osservare che l’Aquinate insistette sulla formulazione anima forma corporis: a) per ragioni teologiche (per evitare che la dualità anima/corpo diventasse un dualismo di doppia origine divina dell’uomo); b) per ragioni antropologiche (per evitare la posizione averroista di compromettere la dignità di ogni individuo umano con la dottrina di una sostanza separata comune a tutti); e c) in base ad una sana fiducia nell’osservazione empirica e nel discorso scientifico. Due osservazioni vanno fatte riguardo la visione di Tommaso, la prima sull’unicità dell’anima umana, la seconda sulla sua comprensione dell’anima separata.
Dopo la morte di Tommaso (1274), prima il vescovo di Parigi E. Tempier e poi l’arcivescovo di Canterbury R. Kilwardby, così come il suo successore J. Peckham, rifiutarono la tesi tomista dell’unicità dell’anima umana, difendendo invece la posizione che sosteneva la presenza di tre anime diverse nell’essere umano. La posizione plurimorfica (ovvero delle “molteplici forme”), in maggiore sintonia con Platone che con Aristotele, finì col prendere il sopravvento negli studi universitari (si pensi specialmente alla dottrina dell’anima apertamente tripartita in Pier Giovanni Olivi), sebbene autori come R. Knapwell e Giovanni di Parigi cercarono di metterne in luce le incongruenze. Fu il Concilio di Vienne (1312) a proporre per la prima volta un insegnamento ufficiale della Chiesa ove si affermava che «l’anima umana è davvero, per se stessa ed essenzialmente la forma del corpo umano» (substantia animae humanae seu intellectivae, vere, per se et essentialiter humani corporis forma, DH 902). à da notare che il punto di partenza dottrinale di questa dichiarazione è prettamente cristologico: lo stesso decreto conciliare insegnò, contro Olivi, che l’unità /unicità dell’umanità di Gesù Cristo (DH 900), di cui Dio si serve per salvarci, è ciò che teologicamente fonda l’insegnamento sull’unione sostanziale tra anima e corpo.
à inoltre comprensibile che la spiegazione di Tommaso sullo statuto dell’anima separata sia rimasta controversa. Lo stesso Aquinate si era accorto della problematicità di un’anima che sopravviva senza compiere una sua funzione essenziale. A Padova, gli averroisti ad esempio dissero che c’era un solo intelletto comune. Pietro Pomponazzi (1462-1525), invece, insegnò che l’uomo non aveva un’anima intellettuale sussistente che potesse sopravvivere senza il corpo. Entrambe le correnti giunsero a negare l’immortalità personale dell’uomo. La loro posizione fu rifiutata dal Papa Leone X che, con l’approvazione del Concilio Lateranense V (1513), negò la tesi secondo cui «l’anima umana è mortale o che è unica per tutti gli uomini» (DH 1440).
I riformatori protestanti si distanziano poco da quanto comunemente insegnato riguardante l’anima nel medioevo. Nessuno di loro pone in discussione né l’esistenza e l’immortalità dell’anima, né la dottrina della composizione e dell’unità fra anima e corpo, sebbene l’anima venga compresa in un’ottica più “spiritualista” e platonica, maggiormente centrata sulla salvezza dell’uomo dopo la morte che sugli effetti della consumazione escatologica alla fine dei tempi ( RESURREZIONE, V). Sotto l’influenza del nominalismo e dell’agostinismo avviene però un sottile e significativo cambio di prospettiva. Non si accetta più che l’esistenza e la natura dell’anima possano essere oggetto di conoscenza da parte della () ragione naturale, come era stato invece sostenuto sia da Platone che da Aristotele fino al medioevo; Pietro Aureolo (1280-1322) e Guglielmo di Ockham (1280-1349) ritennero che l’esistenza dell’anima poteva essere accettata solo come verità di fede; il cardinale Gaetano (1468-1534) penserà lo stesso riguardo la sua immortalità , dissentendo dall’insegnamento del Concilio Lateranense V sulla giustificazione razionale di tale dottrina (cfr. Martin, 1995). Sulla scorta di un certo pessimismo presente nel tardo medioevo, la dottrina circa la sopravvivenza dell’anima dopo la morte e la sua reintegrazione nel corpo al momento della resurrezione finale, rientrava sempre più nell’ambito delle virtù teologali della fede e della speranza, e sempre meno in quello della ragione. à interessante notare che Ockham, sebbene accettasse per fede l’esistenza di una forma immateriale ed incorruttibile nell’uomo, non era disposto a riconoscere che questa informasse direttamente la materia, sostenendo anch’egli la presenza di diverse forme sostanziali. La perdita della concezione del legame fra corpo ed anima e la graduale ricomparsa e consolidamento del dualismo sembrano così accompagnate da una crescente difficoltà a riflettere sulla realtà ontologica dell’anima in termini puramente razionali; inoltre si comincia a pensare che l’immortalità non sia una proprietà naturale dell’anima, ma il risultato in qualche modo della grazia divina. In altre parole, il dualismo pareva andare di pari passo con il () fideismo. Comprensibilmente, i filosofi cominciarono a dirigere la loro attenzione all’anima umana in una maniera non più ontologica, ma piuttosto come una concrezione della soggettività umana.
VI. Soggettività ed anima umana nella filosofia moderna
Si potrebbe dire che, dopo l’esistenza di Dio, l’esistenza e la sussistenza dell’anima umana sia divenuta nella modernità un importante ed indiscusso “articolo di fede”. Di fatto non si rifletterà più sulla sua esistenza e sulle sue proprietà in termini metafisici: l’anima non viene più vista come una realtà che dà fondamento alle azioni immateriali dell’essere umano, ma principalmente come il luogo di riferimento concreto del pensiero, della coscienza, della soggettività , in un clima intellettuale dove prevale lo scetticismo indotto dal nominalismo e rafforzato dal fideismo tipico del protestantesimo (cfr. Stock, 1999).
1. Il dualismo radicale e la supremazia dell’anima. L’umanesimo rinascimentale pose al centro della sua riflessione la soggettività umana, piuttosto che l’anima, come si vede ad esempio nell’opera di Marsilio Ficino (1433-1499). Nel tentativo di evitare i vicoli ciechi dello scetticismo empirista, () Descartes (1596-1650) cercò di stabilire delle «idee chiare e distinte», come un punto di certezza incontrovertibile che andasse al di là di ogni dubbio, fondandosi sulla considerazione che pensiero ed esistenza umana vanno sempre insieme. «Non posso essere sicuro di nulla se non del fatto che io penso», dirà il filosofo francese traendone la conclusione: «penso, dunque sono — cogito, ergo sum» (Principia philosophiae, I, 10). Ovvero, siamo capaci di dubitare di tutto tranne del fatto che esistiamo e pensiamo. Con Descartes, l’anima viene considerata essenzialmente come una soggettività pensante, come l’io che pensa se stesso. In tale processo, egli osserva, l’anima è distinta sia dal corpo che dalle sensazioni: essa opera sulla base di «idee innate» ed è unita al corpo solo accidentalmente. Corpo ed anima sono due sostanze separate, una res extensa ed una res cogitans, rispettivamente, senza che fra di loro vi sia alcuna unione sostanziale. Per Descartes, «io “ho un corpo”, col quale sono intimamente unito». «Comunque, poiché fino a questo momento ho una idea chiara e distinta di me stesso, secondo la quale io sono una res che pensa e non una res extensa, è parimenti chiaro che la mia anima, mediante la quale io sono quello che sono, è completamente e veramente distinta dal mio corpo» (Meditationes de prima philosophia, VI). Sebbene Descartes insista sul fatto che l’unione fra corpo ed anima sia abbastanza stretta, la sua visione è nondimeno chiaramente dualista. L’essere umano consiste di due sostanze complete anche se reciprocamente collegate: egli è un animale “controllato” da un’anima spirituale. L’anima esercita la sua influenza sugli spiriti vitali localizzati nella ghiandola pineale e, di converso, l’anima riceve immagini e sensazioni dagli organi corporali.
In continuità con Descartes, anche Malebranche (1638-1715) ritiene che l’anima non eserciti alcuna influenza reale sul corpo, né viceversa. Piuttosto, i desideri dell’anima sono «l’occasione» che fa sì che Dio possa produrre nel corpo la reazione corrispondente. Spinoza (1632-1677) radicalizzerà in chiave panteista la posizione di Descartes, affermando che corpo e anima sono “due modi” dell’unica Sostanza, coincidenti, rispettivamente con l’estensione ed il pensiero. In altre parole, vi è uno stretto parallelismo psicofisico fra corpo e anima; entrambi designano la stessa realtà : l’anima è “l’idea del corpo” e il corpo è “l’oggetto dell’idea mentale che lo costituisce”. Piuttosto che di anima, Spinoza parlerà preferibilmente di mente (mens). La relazione fra corpo ed anima è espressa da Leibniz (1646-1716) con l’aiuto della sua teoria delle monadi, sostanze semplici, indivisibili, incorruttibili, chiuse in se stesse ed incomunicabili, di cui ogni cosa è composta. Corpo ed anima sono collegati fra loro in un modo puramente estrinseco, egli dice, sebbene lavorino fianco a fianco in modo sincronico, grazie all’armonia originariamente impressa in essi dal Creatore. Visioni analoghe saranno riscontrabili in altri autori dell’epoca come Goethe, Hölderlin, Mendelssohn (cfr. Pieper, 1968).
Il lato problematico dell’equivalenza fra anima e coscienza stabilita da Descartes verrà alla luce col passare del tempo. Sarà () Immanuel Kant (1724-1804) a censurare Descartes, Leibniz e Mendelssohn per aver affermato, acriticamente, una continuità fra la sfera psicologica e quella metafisica. Per il filosofo di Königsberg non è legittimo dedurre l’esistenza di un principio sostanziale semplice, incorruttibile, personale, spirituale ed immortale come l’anima, partendo dall’esperienza soggettiva del pensiero. L’anima può esistere solo come un’idea o un postulato della ragion pratica ed è solo in questo ambito che si può sviluppare un sistema etico-religioso consistente.
2. L’anima e il sé come insieme di fenomeni. Uno scetticismo sviluppato in opposizione a quello di Descartes fu quello del filosofo inglese David Hume (1711-1776). Egli sostenne che il “sé” dell’uomo è costituito da un «groviglio di percezioni», una sorta di teatro in cui diverse esperienze sensoriali fanno la loro comparsa e che ci porta alla consapevolezza di star conoscendo qualcosa. In altri termini, la coscienza e la consapevolezza derivano dalla presenza degli oggetti percepiti e non dalla previa presenza di un’anima spirituale. Hume non nega l’anima (mind) come sostanza spirituale, ma afferma semplicemente che non abbiamo alcun modo per dimostrarne l’esistenza in quanto sostanza. William James (1842-1910), passando dall’agnosticismo di Hume all’affermazione materialista, ne concluderà che l’anima non esiste affatto, perché è la mera collazione di un certo numero di fenomeni psichici. A sua volta Bertrand Russell (1872-1970) descriverà ironicamente lo spirito umano come una «materia allo stato gassoso».
Un fenomeno diverso, che determinerà anch’esso il declino della comprensione cartesiana dell’anima umana sarà il sorgere della psicologia sperimentale fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Indubbiamente le psicologie di Freud, Jung e Adler non mostrano interesse per l’anima in quanto tale. Però tutti e tre sviluppano, sebbene con alcune varianti, una «psicologia del profondo», dalla quale emerge inequivocamente che la mente non opera solo a livello conscio, come avrebbero invece detto Descartes e molti altri, identificando l’anima con il pensiero cosciente. La mente ha una vita propria, gran parte della quale è di tipo «inconscio» o «subconscio». Sebbene la nozione di anima, in quanto profondità , non fosse sconosciuta al pensiero cristiano classico — si pensi al cor agostiniano o anche biblico ( CUORE, III) e all’apex di s. Bonaventura — nel suo equivalente simbolico freudiano essa diviene totalmente autoreferenziale e non rimanda più né alla religione né a Dio. La psicanalisi e la psicoterapia prendono il posto della vita dello spirito e della redenzione. Sempre contro Descartes, le psicologie del profondo “riscoprono” che la psiche umana subisce influenze somatiche di ogni tipo, una tesi alla quale già Tommaso d’Aquino, parlando dell’anima come unica forma sostanziale del corpo, aveva dato ampia espressione.
Malgrado il fatto che alcuni autori della scuola fenomenologica, come Edmund Husserl (1859-1938), abbiano cercato di andare oltre una psicologia descrittiva, rivendicando una nuova «ontologia dello spirito umano», la psicologia sperimentale, insistendo sull’unità psicosomatica dell’essere umano, ha svolto la sua influenza soprattutto nel negare la sua spiritualità , immortalità e libero arbitrio. Qualcosa del genere può essere rintracciato anche nel pensiero marxista. In collegamento reale con il materialismo, i marxisti considerarono l’anima come un mero epifenomeno o un prodotto della materia, negando la sua esistenza come sostanza spirituale. F. Engels (1820-1895) si esprimerà in questi termini: «Cos’è originario, lo spirito o la natura? In base alla risposta che si dà a questa domanda, i filosofi si ritrovano divisi in due grandi scuole. Coloro che affermano l’originalità dello spirito sulla natura ammettono in un modo o nell’altro la creazione del mondo […]. Coloro per i quali è la natura ad essere originaria, appartengono alle differenti scuole di materialismo» (L. Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, 1886). Per i materialisti, l’anima come tale esiste, ma essa non è altro che un termine convenzionale per indicare l’instabile ed alienante epifenomeno della vita umana individuale. La vita psichica e la coscienza di sé sono considerate il prodotto più alto della materia del mondo fisico: esse non sono che funzioni piuttosto complesse di quella particolare forma di materia che si chiama «cervello umano».
VII. Il dibattito sull’anima nella scienza moderna: l’evoluzionismo ed il problema mente-corpo
La scienza moderna ha rivolto la sua attenzione alla questione dell’anima umana, in modo diretto o indiretto, lungo due direzioni principali: l’evoluzione della specie umana con il problema dell’ominizzazione ( UOMO, IDENTITÃ BIOLOGICA E CULTURALE, V), ed il problema del rapporto mente-corpo.
1. Evoluzionismo ed ominizzazione. Nel 1859 Charles Darwin (1809-1882) pubblica il famoso lavoro L’origine delle specie mediante selezione naturale. Nonostante i risultati di Darwin siano stati col tempo rivisti, ed in buona parte anche superati, la tesi generale della sua opera, e cioè che la specie umana discenda dai primati, divenne estremamente popolare. Sulla base della continuità genetica ed evolutiva con gli animali inferiori, e dunque con il mondo biologico, chimico e fisico, cominciò ad affermarsi l’idea che l’uomo potesse essere il risultato naturale e spontaneo dell’evoluzione di forme inferiori di vita. Sebbene vari scienziati e filosofi accettarono l’ipotesi darwiniana e ne diedero seguito, la maggior parte dei filosofi e teologi cristiani espressero delle riserve. Ritenendo tale visione contraria all’insegnamento delle Scritture, questi ultimi percepirono che l’evoluzionismo poneva in seria discussione l’unità ed il carattere trascendente dell’essere umano. Poiché gli umani condividono con forme superiori di primati circa il 99,5% della loro storia evolutiva ed il 95% del loro patrimonio genetico, è comprensibile che tale linea di interpretazione continui ad occupare sia scienziati che filosofi. A cavallo fra il XIX e il XX secolo, parecchi pensatori cristiani (cfr. Gardeil, 1893; Leroy, 1891; Zahm, 1896) formularono ciò che venne chiamata «l’ipotesi trasformista», che spiegava la provenienza del corpo umano da progenitori non umani, stabilendo però che l’anima veniva creata in modo diretto da Dio. Divenire essere umano — ciò che viene chiamato «ominizzazione» — sarebbe dunque un processo verificatosi nel corso della storia. Considerare il problema a questo modo avrebbe semplificato alquanto le cose, perché il corpo sarebbe il campo di indagine delle scienze, mentre l’anima e lo spirito ne venivano separati per essere oggetto dello studio dei filosofi e dei teologi.
Le reazioni delle autorità ecclesiastiche furono inizialmente contrarie a tali posizioni, ma la riflessione della teologia non si arrestò e con Pio XII si chiarì che l’ipotesi evolutiva, per quanto attenesse allo studio circa l’origine del corpo umano a partire da forme viventi preesistenti, non si opponeva a priori alla fede cattolica (cfr. Humani generis, DH 3897). Tale insegnamento verrà riconfermato e precisato da Giovanni Paolo II (Messaggio alla Pontificia Accademia delle Scienze, 22.10.1996; cfr. anche Catechesi del mercoledi, 27.5.1998, n. 5), che si riferirà all’evoluzione non più in termini di ipotesi ma di «teoria» ( MAGISTERO IV.2). Va comunque notato che, da un punto di vista filosofico, una comprensione semplicistica dell’ominizzazione come fase propriamente “umana” che compare ad un determinato punto dell’evoluzione biologica, anche nella sua forma mitigata, resta problematica, in quanto parrebbe segnare un ritorno alle spiegazioni plurimorfiche sviluppate in epoca medievale o, perfino, il ritorno ad un certo dualismo. Se infatti il corpo umano possedesse una “forma” di per sé completa (vegetativa e sensitiva), anteriore alla creazione e all’infusione dell’anima, quest’ultima potrebbe essere difficilmente considerata come «unica forma del corpo» (vedi supra, V.2) e le difficoltà già incontrate nel dualismo platonico e cartesiano tenderebbero ad emergere nuovamente. Sebbene non ci sia dato comprendere come possa essere avvenuto il “collegamento” fra le forme superiori di primati e gli esseri umani, per evitare il suddetto estrinsecismo occorre riservare l’aggettivo «umano» al corpo soltanto in quanto unito all’anima: esso, in quanto umano, comincerebbe ad essere tale solo con la creazione dell’anima. Va anche aggiunto che l’osservazione e le teorie scientifiche sono certamente in condizione di stabilire in quale misura la storia evolutiva ed il patrimonio genetico della specie umana “coincidano”, nel presente o nel passato, con quelli di altri animali, ma tale continuità non è sufficiente, pena un chiuso riduzionismo, per stabilire una “connessione causale” diretta fra l’essere di progenitori non umani e l’essere umano. Tale connessione non è, in senso stretto, un oggetto scientifico da ricercare (missing link), ma un passaggio filosofico (e non solo teologico) da comprendere e da chiarire.
2. Il problema mente-corpo. La crescita della psicologia sperimentale ha dato origine nel XX secolo ad una varietà di scuole e di approcci scientifici ai problemi dell’anima e della specificità umana. Di particolare importanza, in proposito, il «comportamentismo metodologico» (methodological behaviourism) e quello «logico» (logical behaviourism), dovuti rispettivamente alle scuole di B.F. Skinner (The Analysis of Behavior, New York 1969) e G. Ryle (The Concept of Mind, London 1949). In termini semplici, i «behavioristi» considerano gli esseri umani come delle macchine particolarmente complesse, le cui leggi ed operazioni possono essere totalmente dedotte dall’osservazione scientifica e dal comportamento esterno. Dualismi di tipo platonico o cartesiano vengono qui esclusi.
Le critiche al «behaviorismo» non si sono fatte attendere (cfr. Feigl, 1958; Bunge, 1980; Rorty, 1992), in quanto l’eterno dilemma del rapporto fra anima e corpo torna alla ribalta nei termini del rapporto fra la «mente» (che fa qui le veci dell’anima o dello spirito) ed il «cervello» o anche il «corpo». L’esistenza di una componente chiamata «mente» è inequivoca in questi autori, in contrasto con le visioni empirista, materialista o comportamentista. Ci si continua in definitiva a chiedere: qual è la relazione fra l’io, la soggettività , la mente, da una parte, e l’organo biologico, chimico o fisico, usualmente indicato come cervello, dall’altra? Una grande varietà di risposte o spiegazioni per questa domanda sono state suggerite negli ultimi anni dalla neurobiologia, dalle scienze cognitive, dalla teoria dell’informazione e dall’informatica, dalla filosofia del linguaggio e dalla sociologia (per una visione di insieme, cfr. Seifert, 1989; Pinkas, 1995; Maldamé, 1998; Searle, 1998). Fra queste vanno menzionate la teoria dell’identità (Feigl), con associata la questione della intelligenza artificiale, l’emergentismo (Bunge) e infine la teoria del dualismo interattivo (Popper, Eccles).
Prendendo spunto dalla posizione comportamentista, nel suo saggio The “Mental” and the “Physical” (1958), Helmuth Feigl insiste sull’esistenza della mente umana, considerato che l’uomo è assai di più che un meccanismo automatico, regolato sulla base di stimoli e di risposte. Il suo comportamento è, almeno in parte, diretto da un io autocosciente. L’io (the self) non può essere identificato con il comportamento come tale, ma con il principio interno del comportamento. Tuttavia, per Feigl la mente si identifica in modo semplice e diretto con il cervello, e ciò, secondo questo autore, per un “principio di economia”, in base al quale non si devono moltiplicare innecessariamente le cause di un fenomeno. Se tutti i processi umani e tutti gli stati e le operazioni della mente (intenzionalità , comportamento, cognizione, libero arbitrio, ecc.) possono essere spiegati adeguatamente a partire dalle operazioni del cervello, non vi sarebbe allora necessità di postulare l’esistenza di un principio spirituale di vita. Feigl ritiene che se i processi cerebrali potessero essere descritti ed analizzati con sufficiente accuratezza, e ad esempio rappresentati su uno schermo, le azioni umane ed il loro sviluppo potrebbero essere facilmente predetti. Lasciando da parte il fatto che molti filosofi e scienziati si rifiuterebbero di identificare la mente (o l’anima) con il cervello ( ECCLES, II), resterebbe comunque aperto ciò che Crick (1994) chiama «il problema del collegamento» (binding problem), e che potrebbe essere così formulato: cosa tiene le strutture dell’organismo al loro posto e, ancor più, dove esse si sono formate od originate?
Il materialismo emergentista di Mario Bunge (1980) ha voluto superare il riduzionismo di Feigl (cfr. Del Re, 1997). Anche secondo Bunge tutto ciò che esiste è solo materia, ma quest’ultima si esprime in livelli qualitativi differenti. Ogni livello suppone quello inferiore e lo sorpassa ontologicamente. L’esperienza comune, certamente, non ci permette di comprendere ogni cosa in termini puramente fisici. Egli accetta che la mente si identifichi con il cervello, ma aggiunge che il cervello differisce non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente da ogni altro oggetto fisico-materiale conosciuto. L’essere umano deve essere distinto sia dalla biosfera generalmente intesa, sia dagli animali a lui più vicini, come ad esempio gli scimpanzé. La principale proprietà del materialismo emergentista di Bunge è ciò che egli chiama «plasticità », cioè l’attitudine del cervello a programmarsi ed organizzarsi. La teoria emergentista cerca di interpretare i fatti meglio di quanto non faccia il riduzionismo della teoria dell’identità ; tentativi nella stessa linea sono stati compiuti da autori come Changeaux (1983), Dennett (1995), Edelman (1987), Boncinelli (1999). Tuttavia simili tentativi, almeno in quanto utilizzano come punto di partenza una visione monista della realtà , dalla quale i livelli più alti di vita sono visti emergere spontaneamente, difficilmente tolgono l’impressione che si tratti in definitiva di differenze solo quantitative, e non qualitative, come essi vorrebbero. Ben poco spazio è lasciato alla trascendenza ed all’intenzionalità umane (cfr. Maldamé, 1998).
Un’impostazione dualista del rapporto fra mente e corpo continua ad essere popolare fra filosofi e scienziati, fra i quali Karl Popper e John Eccles sono probabilmente i più rappresentativi (cfr. Popper e Eccles, 1981; Eccles, 1990; Popper, 1996; MENTE-CORPO, RAPPORTO, II). Popper si accosta al rapporto mente-corpo dalla sua prospettiva dei «tre mondi». Oltre il mondo delle entità fisiche (mondo 1) e quello dei fenomeni mentali come le esperienze soggettive e la coscienza (mondo 2), vi è anche il mondo composto dai prodotti della mente, quali la storia, le teorie scientifiche, le istituzioni sociali, le opere d’arte, ecc. (mondo 3). L’esistenza del mondo 1 non può essere messa in dubbio, e così anche l’esistenza degli altri mondi, in quanto essi hanno effetti nel mondo gerarchicamente inferiore. à poi evidente che i prodotti della mente e della cultura umana (mondo 3) sono ciò che maggiormente influisce sulla realtà fisica (mondo 1), sebbene essi lo facciano attraverso le operazioni della mente (mondo 2). La mente non può dunque identificarsi con il cervello e le sue operazioni, sebbene la prima interagisca strettamente con il secondo. à l’io a possedere il cervello e non viceversa. Le metafore usate sono di stampo nettamente platonico: l’io (l’anima) è per il corpo come il timone per la nave, dice Popper. In continuità con questa posizione si collocano Eccles ed altri scienziati come A. Green, R. Penrose e R. Sperry. Pur confermando la necessità di un principio non materiale di azione nell’essere umano, si tenderà ugualmente a tornare verso i problemi generati dalle impostazioni di Platone e di Descartes.
VIII. L’anima umana fra teologia e scienza
Riguardo l’esistenza e la sostanzialità dell’anima umana, la panoramica fin qui vista sembra porre di fronte ad un’alternativa: dualismo o monismo. L’anima umana esiste come una sostanza separata (o almeno separabile) che controlla il corpo dal di fuori (Platone, Descartes, Popper), e dunque in linea di principio una sostanza spirituale prodotta dalla divinità e perciò capace di sopravvivere dopo la morte; oppure essa designa una forma configurante, totalmente legata alla struttura psicosomatica dell’essere umano, e che semplicemente si dissolve con la morte di questo. à comprensibile che la dottrina cristiana della creazione e del compimento escatologico non possa accettare nessuna delle due alternative quale unica soluzione ( CREAZIONE, VI; RESURREZIONE, VI). Vari teologi hanno fatto diversi tentativi durante il XX secolo per esprimere in modo innovativo, specie stimolati dalla sfide poste dalle scienze, ciò che tradizionalmente si intende col parlare di «anima». Fra essi vanno menzionati Karl Rahner (1904-1984) e Wolfhart Pannenberg (n. 1928), la cui comprensione dell’anima umana potrebbe essere definita «attualista» (cfr. Greshake-Lohfink, 1975).
Rahner (1961, 1984) spiega che l’origine della vita può essere attribuita interamente a Dio nell’ambito della «causalità primaria» (creazione), ed interamente alla generazione nell’ambito della «causalità secondaria» (evoluzione). Dio è la base reale e trascendentale del processo evolutivo del mondo. Egli opera nel cuore della creazione in e attraverso le cause seconde, senza rimpiazzarle od interromperne i processi. La causalità divina agisce dunque dall’interno di una causalità finita e limitata, elevandola e potenziandola perché possa operare al di là delle proprie potenzialità . La causalità divina è ciò che dà origine all’auto-trascendenza della creatura, ciò che gli scienziati potrebbero chiamare «emergentismo». Applicando questo principio all’uomo, Rahner sostiene che sia Dio, sia i pre-ominidi sono pienamente causa dell’intero essere umano. Il potere di Dio fa emergere la piena potenzialità dello stato pre-ominide, costituendo gli umani come persone, andando così al di là della catena biologica della riproduzione. L’unicità , l’irripetibilità e la spiritualità della persona umana sono radicate, quindi, nell’azione creatrice e potenziante di Dio. Così inteso, l’emergentismo può condurre sia alla personalità dell’uomo che alla vita della grazia divina.
Autori protestanti come Thielicke, Althaus, Cullmann, Barth e Pannenberg negano generalmente l’immortalità “naturale” dell’anima umana e, come conseguenza, anche la sua sostanzialità come co-principio metafisico nella costituzione dell’essere umano. Molti di essi ritengono che la dottrina dell’immortalità dell’anima umana separata dal corpo finisca col rendere superflua la dottrina biblica della resurrezione e del giudizio finali, giungendo erroneamente a rimpiazzarla. Alcuni teologi cattolici sono stati inclini a muoversi nella stessa direzione (Ruiz de la Peña, Greshake, Lohfink). La tradizione teologica protestante, tuttavia, non aveva negato né la sostanzialità né l’immortalità dell’anima umana, quanto piuttosto il contrario, anche se si riconosceva trattarsi sempre di un insegnamento della fede, non raggiungibile dalla sola ragione. Il cambio di tendenza è principalmente dovuto alla maggiore preoccupazione che i riformatori contemporanei hanno avuto di non distaccarsi dal dato biblico (la Scrittura parla esplicitamente di resurrezione ma non altrettanto esplicitamente di immortalità dell’anima), ritenendo che parte della dottrina sulla natura e le proprietà dell’anima umana fosse di origine greco-platonica e necessitasse pertanto una de-ellenizzazione. Ma vi è un’altra e forse più importante ragione di questo disagio che i protestanti avvertono nei confronti dell’immortalità dell’anima separata. Nella filosofia moderna l’anima era compresa come centro del sé e dell’aspirazione umana all’Assoluto; un’anima immortale fu percepita quindi come una minaccia alla dottrina della sola fede e della sola grazia ( LUTERO, IV) , ovvero come se l’uomo potesse offrire a Dio qualcosa di proprio che Dio non gli avesse donato (cfr. A. Ahlbrecht, Tod und Unsterblichkeit in der evangelischen Theologie der Gegenwart, Paderborn 1955, pp. 112-120). Secondo Barth, infatti, se solo Dio è immortale (1Tm 6,16), l’anima non può essere a sua volta tale.
Sempre in ambito protestante, è in atto un certo recupero della nozione di anima (cfr. Hermann, 1997), mentre altri ne favoriscono un’interpretazione «attualista» o «dinamica». Secondo quest’ultima interpretazione, dopo la morte l’anima separata non potrebbe essere considerata un essere sussistente come tale; l’essere umano individuale sarebbe piuttosto “trattenuto” nella mente di Dio durante il periodo compreso fra la morte e la resurrezione finale. Alla fine dei tempi, con la resurrezione finale, la persona riceverebbe la sua definitiva pienezza ed immortalità , come una sorta di «nuova creazione».
Il teologo luterano Pannenberg (1994, 1996) ritiene che la scienza moderna abbia dimostrato che l’anima non è un oggetto ma piuttosto un aspetto del dinamismo della vita e del comportamento umano. Non avrebbe perciò senso, secondo questo autore, parlare di immortalità dell’anima. Inoltre, egli nota che la speranza cristiana è fondata sulla nozione di novità , di rinnovamento piuttosto che su quella di stabilità o di continuità . Pannenberg ammette che la teologia cristiana fu condotta storicamente ad accettare le nozioni di sussistenza e sopravvivenza dell’anima come principio vitale dell’uomo, non per un’acritica assunzione di categorie platoniche, ma per poter assicurare l’“identità ” dell’essere umano fra il suo stato terreno e quello futuro della resurrezione finale. La cosiddetta immortalità dell’anima è in fondo ciò che rende la resurrezione possibile, e l’anima come forma corporis era vista quale modalità per conservare l’individualità , il patrimonio genetico, in qualche modo l’éidos dell’essere umano. Pannenberg sostiene però che, intesa in questo modo, l’anima umana separata sarebbe un soggetto di “nuove esperienze umane”, come ad esempio quelle relative alla purificazione nello stato del Purgatorio o all’attività di intercessione attribuita ai santi: ciò condurrebbe da un lato a vanificare la sua funzione di conservazione dell’identità , in quanto quest’ultima sarebbe soggetto di nuove esperienze, dall’altro ad ammettere una certa pienezza e completezza della presenza della persona umana in un simile stato. Per questo motivo, il teologo tedesco suggerisce che durante lo spazio intermedio fra la morte e la resurrezione (che la teologia chiama «escatologia intermedia») l’identità umana sarebbe meglio garantita se questa fosse presente, quasi codificata, solo “in Dio”, poiché solo in Lui le nostre vite e le nostre storie possono divenire immortali.
IX. Osservazioni conclusive: l’anima umana, «azione» o «sostanza»?
Riteniamo che un’adeguata applicazione dell’ilemorfismo suggerito da Tommaso d’Aquino sia in grado di superare le conseguenze tanto della comprensione monista come di quella dualista del rapporto fra anima e corpo (cfr. Borghi, 1992). Tommaso si oppose con energia alla teoria di Averroè secondo cui esisteva un unico «intelletto possibile» (come pure un unico «intelletto agente») comune a tutti gli esseri umani, separato dai corpi, coincidente con l’intelligenza motrice del mondo, l’unica ad essere eterna ed immortale. Similmente egli si oppose al pensiero di Avicenna, che affermava l’unicità dell’«intelletto agente» (pur ammettendo la molteplicità degli intelletti possibili). Se così fosse, sostiene s. Tommaso, non sarebbe lo stesso individuo a compiere le operazioni intellettive, bensì un semplice strumento dell’azione di un altro: hic homo intelligit, dice Tommaso (Summa theologiae, I, q. 76, a. 1). In ambedue i casi l’anima umana resta un frammento di divinità che si attualizza nel singolo e i sensi e l’immaginazione dell’individuo, sostiene ancora Tommaso, potrebbero svolgere un ruolo meramente accidentale nella conoscenza umana (cfr. Contra Gentiles, II, c. 76; Summa theologiae, I, q. 79, aa. 4-5). Le posizioni di Rahner e di Pannenberg non paiono lontane dalle precedenti, perché anch’essi vedono l’anima in termini «attualistici»: Dio sarebbe l’unico a vivificare ogni singolo essere umano a livello di causalità formale o quasi-formale. Ne derivano però conseguenze di rilievo.
Di fronte allo stato dei fatti, la teoria dell’ominizzazione di Rahner offre una soluzione coerente e ragionevole al dilemma posto dall’evoluzione biologica. Ma ciò ha un prezzo. In primo luogo non vi sarebbe un buon motivo per ritenere che l’azione divina che conduce esseri finiti a trascendere se stessi debba essere riservata ad individui che siano già “geneticamente identificabili” come umani. Detto in altre parole, la differenza fra esseri non umani ed umani può, in questa visione, essere solo quantitativa e non qualitativa. In secondo luogo, se è la causalità divina efficiente a produrre l’auto-trascendenza di esseri finiti, allora le azioni attribuite agli esseri (umani) in questione resterebbero collegate solo accidentalmente alla loro natura, rimanendo in qualche modo ad essa estrinseche. Ciò implica attribuire all’essere umano, nei confronti di Dio, il ruolo di una «causa strumentale» piuttosto che quella di una «causa seconda» ( AUTONOMIA, II.1). Nell’ordine della creazione, e specificamente in quello della spiritualità dell’anima umana, Tommaso d’Aquino aveva insegnato che: «nessuna operazione compete ad un soggetto se non per mezzo di un principio ad esso formalmente inerente» (Summa theologiae, I, q. 79, a. 4) e, inoltre, «una cosa opera in conformità al suo modo di esistere; per cui non diciamo che ciò che riscalda è il calore, ma il corpo caldo» (ibidem, q. 75, a. 2). Ciò equivale a dire che le azioni immateriali, di qualunque tipo esse siano (conoscenza, amore, libertà , ecc.), possono essere attribuite in modo significativo agli esseri umani solo se esse derivano da una sostanza immateriale che appartenga all’uomo, cioè dall’anima umana. Diversamente, tali azioni potrebbero essere riferite ad una realtà esterna spirituale comune, forse ad una sorta di intelletto agente comune, o in ultima analisi a Dio stesso. Sarebbe dunque più corretto sostenere che l’azione di Dio nella creazione dell’essere umano a livello di «causalità prima» coinvolga «la creazione dell’anima umana», l’unica forma che fa sì che gli esseri umani possano conoscere, amare, essere aperti a Dio, ecc.
La posizione di Pannenberg sulla sostanzialità e l’immortalità dell’anima umana non garantisce una sufficiente “consistenza” alla creatura in quanto tale. In un contesto cristiano è certamente corretto considerare Dio come l’unico capace di garantire l’immortalità dell’essere umano o la sua permanenza nella sua concreta individualità vivente. Tuttavia, non diversamente da Rahner, sembra scorretto individuare l’identità dell’essere umano (e dunque la sua immortalità ) solo nella concretezza della sua storia e non, piuttosto, nel “soggetto umano” di quella storia. Gli esseri umani, ancor prima di avere una storia personale e di sviluppare la loro concreta identità -personalità , sono già “umani”, con una dignità spirituale inscritta nel profondo del loro essere. Ovvero, la dottrina dell’immortalità dell’anima non è tesa a garantire l’identità della storia singolare di ogni essere umano, ma ad assicurare l’identità metafisica del loro essere “umano”: la prima dipende dalla seconda. L’opposizione registrata da Pannenberg fra la novità (escatologia biblica) e la stabilità (visione platonica) va risolta con analoghe considerazioni. In assenza di un soggetto metafisicamente stabile, non sarebbe possibile alcuna novità significativa, perché ogni novità presuppone una discontinuità rispetto a quanto prima posseduto o sperimentato da un soggetto. La novità deve essere novità “di qualcuno”. Nella prospettiva di Pannenberg, il soggetto di tale novità , nel periodo intermedio fra la morte e la resurrezione finale, potrebbe essere solo Dio stesso, o lo Spirito oggettivo, di cui l’essere umano individuale (come spirito soggettivo) sarebbe una semplice derivazione o manifestazione.
In un documento ecclesiale di pochi anni or sono leggiamo questo riassunto della dottrina cristiana riguardante l’anima umana in un contesto escatologico: «La Chiesa afferma la sopravvivenza e la sussistenza, dopo la morte, di un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà , in modo tale che l’io umano sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del proprio corpo. Per designare un tale elemento, la Chiesa adopera la parola “anima”, consacrata dall’uso della Sacra Scrittura e della Tradizione. Senza ignorare che questo termine assume nella Bibbia diversi significati, essa ritiene tuttavia che non esista alcuna ragione per respingerlo, e considera, inoltre, che è assolutamente indispensabile uno strumento verbale per sostenere la fede dei cristiani» (CDF, Alcune questioni di escatologia, 17.5.1979, EV 6, 1539). Sia lo studio delle scienze, sia la riflessione della religione e della filosofia, hanno condotto lungo i secoli a tematizzare, sebbene con linguaggi e prospettive diverse, proprio la necessità di una simile nozione, quella di un principio unificante ed informante dell’essere umano, di un centro spirituale della sua vita (cfr. Schönborn, 1984). Se le prime hanno storicamente insistito di più sulla unità psico-somatica della persona umana, e dunque sulla inseparabilità fra corpo e anima, le seconde hanno favorito invece la distinzione dell’anima dal corpo, con una deriva verso il dualismo. La dottrina cristiana, sulla base dell’unicità dell’atto creativo di Dio, insegna che l’anima umana è l’unica forma del corpo umano; eppure, alla luce della dottrina circa la resurrezione finale, si sostiene anche la possibilità di una sopravvivenza temporanea dell’anima separata dal corpo. Oltre a situare la dignità della persona umana nel fatto che la sua anima è creata direttamente da Dio senza alcuna mediazione, il cristianesimo afferma infine, su tale base, anche una priorità metafisica di questo co-principio specificamente spirituale dell’essere umano.
Paul O’Callaghan
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Esiste tuttavia una certa priorità gerarchica o dinamica dell’anima sul corpo: l’anima è una sostanza razionale che “governa” il corpo o, anche, l’uomo è un’anima razionale che utilizza un corpo terreno e mortale; l’esperienza sensibile non è propria del corpo, ma dell’anima attraverso il corpo (cfr. Agostino De Genesi ad litteram, III, 7).
2006-09-03 10:14:55
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answer #6
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answered by Anonymous
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